Potrebbe aiutare, a partire da quest’ultimo Padiglione Italia, e al di là di ogni valutazione più o meno campanilistica e non inerente alle sue configurazioni scientifiche, iniziare a ragionare sul contributo che l’arte contemporanea italiana può dare a quella che vorrei definire in questa sede la necessaria sfida antinaturalistica delle discipline creative. Un po’ scioccamente rispetto al dibattito più recente si tende a considerare le questioni riguardo alla sostenibilità ambientale e dei modelli paesaggistici, architettonici, economici e industriali che sottendono questo specifico momento storico come un back to the nature, come una specie di nuovo amore trascendentalista verso la Natura. Il trascendentalismo, purtroppo, è stato un lusso ottocentesco. Ciò che invece mi sembra urgente, proprio in questo momento in cui Gian Maria Tosatti ed Eugenio Viola ci invitano a produrre uno «statement sul futuro postpandemico», è ragionare su quanto il problema non sia che l’Homo sapiens si sia allontanato dalla natura, ma che vi si sia allontanato maldestramente. La natura non è un territorio verde, mistico e straordinario, cui guardare acriticamente per risolvere le nostre ecologie, ma una realtà complessa e articolata di cui il nostro termine «natura» è solo la mappa per osservare un territorio assai più vasto e sconosciuto. La natura è spesso mostruosa, terribile, agghiacciante o forse, meglio, non è nessuna di queste cose perché è extraterritorialmente morale, come argomentava più di cento anni fa Friedrich Nietzsche: le madri di granchio divorano molti dei loro figli, ci sono scimmie che uccidono i loro figli col sorriso, e lo stesso fanno leoni, ratti, suricati, e poi ci sono malattie mortali, terremoti devastanti o atroci epidemie.
Il discorso sulla «sostenibilità», che poi è già un termine tristemente umanista, rischia di essere ammantato di un naturalismo quasi puerile («che meraviglia la natura e/o povera natura») facendoci invece dimenticare il problema concettuale interessante, tanto in filosofia che in arte, tanto nella scienza che nel design, che non è abbracciare una filosofia della natura che sembra essere ferma a Kant ma produrre un ricondizionamento dialettico dell’antropocentrismo. È su questo, e assai più maturo, modo d’intendere le ecologie delle arti che tutti dovremo provare a ragionare insieme nel pur paradossale invito del primo monopadiglione della storia italiana: «Un vero panorama, non un’aggregazione di solitudini».
Qualsiasi progresso morale o artistico, per non dire poi scientifico, è sempre stato legato a un approccio che «la facesse finita con l’idea di Natura», per dirla con il filosofo francese Yves Bonnardel. È naturale un germinale patriarcato per una presunta forza superiore del maschile sul femminile? Non è importante e la natura va distrutta. È naturale un germinale approccio di superiorità dell’umanità agli altri animali per fini alimentari o di sfruttamento? Non è importante e la natura va distrutta. È naturale una germinale lateralizzazione dei generi in maschile e femminile che non si sposa bene col pensiero queer? Non è importante e la natura va distrutta. Potremmo continuare con un lunghissimo elenco che arrivi fino alle ormai note teorie in arte del filosofo Paul B. Preciado, ma val la pena di comprendere come molta arte contemporanea legata alle pratiche ecologiche abbia maldestramente interpretato un’idea di natura semispinoziana per cui tutto ciò che è naturale è anche bello. I valori umani, quelli che un po’ ingenuamente chiudiamo nella categoria del «progresso morale», sono in costante tensione e critica delle cose della natura. La vicenda, del resto, è antica e contemporanea allo stesso modo: la cacciata degli artisti dalla città ideale di Platone si basava su un’idea dell’arte come riproduttiva e/o celebrativa di una natura che se va semplicemente osservata o protetta non ha nessun bisogno dello specchio dell’arte.
L’arte contemporanea, ed è così almeno dalla svolta concettuale e dunque posthegeliana, è un ragionamento fantastico sulle possibilità alternative a quelle fornite dal reale e questo reale è anche e soprattutto quello cui con il termine «natura» proviamo a riferirci. Essere in equilibrio con la natura non significa «sostenerla»: per questo il termine sostenibilità è parte di un antropocentrismo becero, se significa tentare una convivenza nell’antagonismo necessario, che ovviamente dobbiamo avere in quanto individui culturali. Da tempo manca, ed è quasi scontato dopo il terremoto postmodernista, una narrazione generale sulle urgenze artistiche e l’ecologia (con vari nomi più o meno green) viene più o meno utilizzata come ombrello categoriale per raggruppare tutti sotto un’unica grande famiglia: o sei ecologista o non sei niente. Non è chiaro che ciò che invece dovremmo provare a fare è scrivere una specie di manifesto contronatura, qualcosa che ci permetta di costruire e progettare mondi non alteranti dell’equilibrio biosferico, che ovviamente dà le condizioni di possibilità alla nostra vita, ma che tuttavia siano in continua tensione critica con questo stesso equilibrio.
Evitiamo di andare all’estero, visto lo scopo di questa riflessione sulla situazione italiana, e anche osservando artisti più o meno emergenti o celebri in Italia molti sarebbero «raccontabili» alla luce di un qualche tentativo di dire l’ecologia senza andare contronatura. Può essere vero per generazioni mid-career come Elena Mazzi o Renato Leotta, come Nicola Martini, Patrizio Di Massimo o Sara Enrico, come del resto lo è per Gian Maria Tosatti, ma anche per generazioni di artisti completamente adulti (mi si perdoni la distinzione puramente di lavoro) come Diego Perrone o Marinella Senatore, come Adrian Paci (che è un artista quasi italiano) o Lara Favaretto, come Tiziana Pers, Marzia Migliora o Marcello Maloberti. E poi sarebbe vero, a maggior ragione, per gli emergentissimi; penso ad alcuni che sono addirittura stati miei studenti, come Camilla Alberti, che ha recentemente lavorato su questi temi a Palazzo Strozzi a Firenze. Potremmo fare un elenco simile per curatori e giovani curatori, e ovviamente i miei elenchi sono parziali e hanno l’unica e sola funzione di chiederci: siamo sicuri che l’ecologia così come ce la stiamo raccontando serva davvero a qualcosa?
M’immagino di mettere questi e altri artisti tutti insieme a scrivere un libro-mondo fatto di opere e testi che siano una nuova guerra alla natura, ma con la (presa di coscienza) che la guerra che le abbiamo fatto fino ad adesso è stata sbagliata e che la strategia deve radicalmente cambiare a partire dalla messa in discussione di alcuni ultimi ancoraggi alla guerra precedente: dobbiamo davvero mettere in discussione le identità e non solo con falsi statement, immaginandoci la sovrapposizione definitiva dei punti di vista o delle autorialità (un Padiglione Italia anonimo sarebbe davvero rivoluzionario); possiamo tentare di combattere le ultime tendenze ipernaturaliste come le alimentazioni non vegetali che hanno massacrato questo Pianeta; dobbiamo cercare di eliminare ogni retaggio per cui fare arte o filosofia sia essere ancorati alla realtà, mentre invece è sempre un radicale esercizio di fantasia quello in cui ci troviamo costantemente a navigare. Questa guerra di pace, ossimorica ma necessaria, iniziata forse, ma mai proseguita, solo con la dOCUMENTA (13) di Carolyn Christov-Bakargiev, è un invito a fare a pezzi prima di tutto le nostre vecchie idee sul mondo naturale, che non è qualcosa che va protetto o contemplato: dei destini dell’umanità la Natura, fortunatamente, se ne frega. Ci sopravvivrà facilmente, era qui prima di noi e lo sarà anche dopo di noi: la narrazione generale delle arti e filosofie naturali è tutta da rifare, partendo dall’idea di una dialettica dell’antropocentrismo di matrice antinaturalista. Dobbiamo decostruire un antropocentrismo forte e radicale, che certo è quello che ci ha portato sin qui, ma dobbiamo anche investire concettualmente per una sua forma nuova; io l’ho, per esempio, chiamata «postumano contemporaneo» in un libro (Fragile umanità, Einaudi, Torino 2017) in cui provavo a raccontare come sia davvero importante comprendere che l’umanità è fragile, non soltanto perché messa in pericolo dalla crisi climatica ma soprattutto come concetto: che cosa significa davvero essere umani? Dove inizia e dove termina l’estensione semantica della parola «umanità»? Come ci distinguiamo dagli animali se ciò cui normalmente facciamo riferimento (mente, linguaggio, cognizione) si trova anche in loro? Non credo sia la natura ciò che ci fornirà risposte nette, e lo dico anche in parziale contraddizione a tante idee di quando ero più giovane e speravo nel lusso del trascendentalismo americano anche fuori tempo massimo: le risposte arriveranno da un complesso negoziato concettuale in cui gli attori sono artisti e tecnologi, filosofi e curatori, designer e progettisti di videogame, politici e stilisti. Forse prima o poi, come raccontavo in questo stesso libro, l’umanità più vasta soccomberà per lasciare spazio a una nuova specie di ominidi che vivrà diversamente il proprio rapporto con la natura ma fino a quel momento la domanda dell’arte e della riflessione sull’arte dell’Homo sapiens deve comunque cambiare forma: non tanto che cosa può fare l’arte contemporanea per la sostenibilità, ma che cosa potrebbe mai fare per ridisegnare una nuova e più rivoluzionaria forma di antinatura che non conduca a squilibri ecosistemici.
Lo storico gesto artistico delle «7000 querce» del 1982 di Joseph Beuys a documenta 7 raccontava un’idea di azione ecologica totalmente sbagliata, se riletta alla luce di una critica non celebrativo-storica ma curatorial-filosofica. Gli artisti non dovrebbero avere a che fare con operazioni di pseudogiardinaggio o di falsa coesistenza con altre specie (pensiamo sempre a Beuys e ad «I like America and America likes me», in cui in realtà il coyote era drogato e dietro le sbarre), ma con la creazione di scenari in cui la natura stessa viene messa in discussione perché gli assunti su cui si basa sono diametralmente opposti a quelli della seconda natura, ovvero della coscienza umana. Come potremmo vivere senza alberi? Come potremmo esistere senza usare e dunque neanche torturare animali? In che modo è possibile creare mondi antagonisti alle più primordiali leggi della natura aggirando finalmente il problema della fallacia naturalistica di David Hume per cui è impossibile passare dall’essere al dover-essere (dalla natura alla società)? Beuys, come molti artisti e curatori che poi a lui si sono ispirati, rappresentano l’inizio del fraintendimento dell’idea che la natura sia bella, ornamentale, celebrativa o addirittura un elemento architettonico: convivere in equilibrio, tuttavia, non significa sposare le ragioni stesse di quell’equilibrio ma combattere senza mai uccidersi.
Penso che questa Biennale in generale, nello specifico il Padiglione del nostro Paese, siano da un lato uno straordinario esempio di ennesima sopravvivenza alle leggi della natura (postpandemia è ovvio, ma non era così scontato durante la pandemia), da un altro lato ancora un’occasione non completamente centrata di presa di contatto con i problemi reali che come umanità dovremo urgentemente affrontare e che non sono, ahimè, né la rilettura femminista dei surrealismi né tantomeno democratiche mappature dell’arte italiana, quanto invece la produzione di una visione fantastica (e qui invece il riferimento magico a «Il latte dei sogni» mi sembra azzeccato) di come sia possibile progettare spazi per l’umanità che verrà con la presa d’atto definitiva che non abbiamo niente a che spartire con la natura e che, anzi, la nostra stessa esistenza è sempre e comunque un manifesto di messa in mora delle sue leggi più basilari: uso e non consumo delle risorse, legame tra forma di vita e nicchia ecologica, non modificazione generale delle norme legate a malattie o meccanismi di sacrificio delle individualità viventi in vantaggi degli ecosistemi.
Quasi dieci anni fa, insieme alla storica dell’arte e oggi direttrice dell’Archivio Piero Dorazio a Milano Valentina Sonzogni, scrivevamo un numero speciale della rivista d’arte e filosofia «Animot» dal titolo Un’arte per l’altro. La nostra idea, che qui provo a riaggiornare e rilanciare, era che l’arte contemporanea dovesse trovare il coraggio di dialogare in modo radicalmente nuovo con altre forme di vita, animali e vegetali, non mitizzandole in modo stucchevole ma provando a comprendere come i nostri desideri artistici siano sempre e comunque un grande volo verso l’altrove dalla natura. E dovremmo smetterla di pensare di trucidare e salvare contemporaneamente ciò che umano non è: voliamo altrove, scappiamo verso una nuova seconda natura che sia in equilibrio col Pianeta ma in costante dialettica con il nostro antropocentrismo più primordiale. L’umanesimo deve essere sostituito dall’animalismo, e nessun animale si preoccupa di salvare la natura, ma solo di vivere nonostante essa. Usiamo tutto ciò che è in nostro potere, dalla tecnica alla fantasia, per creare universi queer e senza identità, vegani e senza sfruttamento di vite innocenti, nonostante la maggior parte di queste cose non siano sostenibili bensì proprio antinaturalistiche (ma non naturale in senso stretto è la tana del coniglio o il nido delle api). Queste cose sono naturali proprio perché contro natura. La natura, in effetti, non è la soluzione alla salvezza della natura ma proprio il problema che dobbiamo urgentemente affrontare: possibile che non si possa urgentemente sperare in una Biennale che si occupi di questi temi senza più stucchevoli richiami alla natura fragile o a un moralismo di frontiera dal sapore del revisionismo storico? Scrivere questo manifesto è urgente e la categoria «naturale» viene strettamente associata a un giudizio di valore. Questo giudizio valoriale è ciò che l’arte può contestare più di qualsiasi altra disciplina umanistica, purché si riconosca che l’ideologia del rispetto della «natura» guadagna sempre più terreno su quella della vittoria sulla natura, benché l’una sia lo specchio dell’altra.
Il già citato Yves Bonnardel ha sostenuto, credo giustamente, che un criterio di naturalità anziché uno di giustizia porta a consolidare ogni ingiustizia. L’etica e l’estetica sono tutt’uno e la ricerca del bene è spesso la costruzione di nuovi territori estetici che la natura non aveva lontanamente previsto. La sola etica degna di questo nome è quella che si applica al progetto fantastico di un mondo lontanissimo dalle cosiddette leggi della natura, e dunque anche delle ecologie più superficiali e ancora sfortunatamente in voga: l’uguaglianza, per definizione, rifiuta ogni arbitraria passione per le cose del mondo e ne crea uno nuovo.