Indice
Capitolo 3
|
Le umane risposte
L’arte non si priva di nulla
Capitolo 3: Le umane risposte

L’arte non si priva di nulla

Achille Bonito Oliva ripercorre «Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura», la Biennale del 1978 da lui curata con Jean-Christophe Ammann, Andrea del Guercio e Filiberto Menna, anticipatrice di inquietudini più che mai attuali

Conversazione con Achille Bonito Oliva di Clarissa Ricci

Gli anni Settanta sono stati per la Biennale di Venezia un momento di grande sperimentazione artistica ed espositiva. Nel tentativo di unificare la proposta delle mostre dei padiglioni e quella centrale curata dalla Biennale, si cercò per alcune edizioni di trovare un tema comune. Il 1978 fu la volta della «natura». Per quanto intesa in senso lato, il tema del rapporto fra arte e natura fu un’occasione di riflessione su argomenti quali l’ecologia, la sostenibilità, la naturalità dell’esistenza che toccarono in modo trasversale molte discipline.

Coordinatore della manifestazione e co-curatore della sezione più contemporanea, dal titolo «Natura/Antinatura», fu Achille Bonito Oliva. Nell’intervista che segue ce ne racconta caratteristiche e finalità, riflettendo insieme a Clarissa Ricci intorno alle implicazioni di quella Biennale per le edizioni successive.

[Clarissa Ricci] «Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura» fu il titolo della Biennale del 1978 che lei, come coordinatore, realizzò insieme a Jean-Christophe Ammann, Andrea del Guercio e Filiberto Menna. Quella mostra fu un’anticipazione straordinaria di temi quali il rapporto dell’uomo con l’ambiente e l’ecologia che ora preoccupano tutti. Il titolo suggerisce però che il termine natura fosse da intepretare in senso ampio. In che modo intendevate dunque «natura»?

[Achille Bonito Oliva] C’era una doppia preoccupazione. La prima era di recuperare un riferimento alla cultura. Tenga conto che negli anni Sessanta, specialmente nell’arte anglosassone, inizia la Land Art, che rivolgeva la sua attenzione al tema della natura; e poi c’era anche il fatto stesso di riflettere sul ruolo dell’arte che rimandava alla natura. Per cui, partendo dal titolo, c’era una doppia valenza che abbiamo voluto segnalare con la mostra: da un lato il riferimento alla natura intesa come matrice di ogni tensione creativa che l’arte poteva avere e dall’altro un’apertura dell’arte alla natura, un tema che non implicava semplicemente un riferimento alla natura come paesaggio ma che intendeva la natura anche come tentativo di riflessione sulla propria identità e intorno alla libertà che l’arte poteva esprimere con la sua creazione. Quindi la natura intesa non solo come riferimento e matrice di quello che ci circonda, ma anche come un pungolo, un riferimento («Sturm und Drang» dicevano i tedeschi) che implica il pathos e allo stesso tempo la spinta creativa inarrestabile.

[C.R.] In effetti la mostra proponeva un viaggio, un percorso in sei stazioni attraverso l’esperienza dell’arte del Novecento. Le stazioni, si può dire, costituivano dei «momenti concettuali» di una problematica intorno alla quale l’arte si era interrogata a partire dalle prime avanguardie. Si potrebbe dire che al centro della mostra non ci fosse la natura quanto piuttosto una domanda intorno alla natura dell’arte.

[A.B.O.] Volevamo documentare proprio la valenza concettuale dell’arte e il fatto che la natura dell’arte, oltre ad avere una carica rappresentativa, ogni volta, con le sue forme, ha la forza di produrre una riflessione.

[C.R.] Questo atteggiamento non riguardava soltanto le mostre di voi curatori della Biennale, ma venne anche assimilato e rielaborato dai padiglioni. Ho letto nell’Annuario degli eventi del 1978 che nella riunione preparatoria fu proprio lei a rivolgersi ai commissari nazionali, presentando la vostra idea per il tema di quell’edizione. Gli anni Settanta furono in generale un periodo in cui la Biennale cercò una stretta collaborazione con i padiglioni e mi pare che la risposta in questo caso ci fu, e fu anche molto positiva.

[A.B.O.] Sì. In particolare io intendevo segnalare che la Biennale di Venezia aveva un naturale aspetto cosmopolita, internazionale. I padiglioni facevano capo ai diversi commissari dei vari Paesi e spesso erano più concentrati a tutelare sé stessi. Ne risultava una mostra fatta di tante piccole particelle. In qualche modo riuscimmo a convincere i commissari degli altri padiglioni ad assumere il tema partendo dal genius loci del proprio Paese, confermando un aspetto che è, è il caso di dirlo, naturale dell’arte internazionale.

[C.R.] Nominando il genius loci, che fu anche il titolo di una mostra da lei curata nel 1980, ha anticipato una questione che volevo porle. Ovvero se crede sia utile oggi rileggere questo concetto, che tanta fortuna ebbe in particolare negli Ottanta, anche in chiave ecologica. Oppure le sembra una forzatura?

[A.B.O.] No. Mi sembra, è il caso di dire, naturale. C’è anche un riferimento a un’ecologia dell’arte. Un riferimento quindi non solo a quanto ci circonda, secondo un modo tradizionale d’intendere questo concetto, ma anche al fatto che è nella natura dell’arte riflettere mentre crea nuove cose. Quel che è interessante è che l’arte riesce ad assecondare non solo una fecondità espressiva, ma anche ad affermare un momento concettuale dell’arte. In quegli anni, specialmente, l’arte quasi si spoglia delle sue forme apparenti per documentare un aspetto essenziale. Si può dire che l’arte si smaterializza per confermare il suo lato concettuale, per arrivare a confermare lo scheletro, l’essenza dell’arte in sé. Tutto ciò è interessante perché la mostra della Biennale del 1978, che come lei ha giustamente ricordato aveva sua dimensione storica e internazionale, produce una rappresentazione e un itinerario dell’arte che dalle forme piene arriva a un aspetto quasi francescano.

[C.R.] A Venezia la questione ecologica sollevata da operazioni artistiche era emersa, possiamo dirlo, dalle acque. Il primo episodio eclatante fu la performance, nel 1968, di Nicolás García Uriburu: l’artista aveva colorato di verde il Canal Grande con la fluoresceina, sostanza innocua che però aveva fatto temere il peggio per la laguna. Dieci anni dopo si tiene la vostra Biennale, tesa a mettere in discussione la questione della natura, seppur in senso lato. Era dunque ancora una preoccupazione? Perché nel 1978 vi sembrava urgente trattare quei temi?

[A.B.O.] Il momento era maturo per documentare proprio come l’arte usciva dalle proprie forme tradizionali, come dal chiuso passava all’aperto. Passare all’aperto vuol dire proprio questo: non fare un’arte di protesta ma riuscire a sviluppare un’arte en plein air, delle forme capaci di assumere, di assorbire, un respiro, un collegamento con l’esterno. E dico esterno per indicare anche il fatto che, se si ricorda, in quegli anni si conferma un’arte che tocca tutti i campi possibili. L’arte in qualche modo non si priva di nulla, assume una linearità totale e naturalmente arriva a toccare anche il tema dell’ecologia.

[C.R.] Il fatto che l’arte possa toccare veramente qualunque campo era ben evidente in quell’edizione della Biennale, perché attraverso le mostre si presentava al visitatore un’esperienza multidisciplinare: c’era una stazione dedicata all’architettura, una alla fotografia, alle esperienze femministe, alla poesia visuale…

[A.B.O.] Era una mostra interdisciplinare, multimediale, capace attraverso tutti i mezzi possibili di non fermarsi a una rappresentazione delle cose. L’Impressionismo con il suo en plein air aveva già toccato questa possibilità di produrre l’arte relazionandosi con la natura e anche all’aperto. Era quindi un tema che veniva da lontano e che trovava in «Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura» la possibilità di sconfinare in tutti i linguaggi possibili.

[C.R.] In questa molteplicità di linguaggi c’era anche la possibilità di considerare gli stessi Giardini della Biennale come luogo di rappresentazione, da interpretare o da rivedere. Nel Padiglione del Brasile, ad esempio, figurava un intervento di Roberto Burle Marx, che proponeva un progetto di riqualificazione, di landscape design, per i Giardini di Venezia. D’altronde questo spazio verde è per la Biennale estremamente caratterizzante. Per visitare i padiglioni bisogna percorrerlo per forza…

[A.B.O.] La mostra è un invito a sconfinare, a uscire dai padiglioni e rapportarsi in un percorso aperto che sviluppa anche un’intesa e un dialogo di artisti dei vari Paesi.

[C.R.] Un dialogo sempre molto variegato. Fra le opere che caratterizzarono quell’edizione ce ne furono alcune, soprattutto quelle che fecero uso di animali, che sollevarono scandalo e perplessità, attirando l’interesse dei media. Ad esempio le pecore che stazionarono ai Giardini, messe in mostra dall’artista israeliano Menashe Kadishman. Oppure il toro portato dall’artista italiano Antonio Paradiso, che si accoppiò sotto lo sguardo dei visitatori con una mucca meccanica. Non era la prima volta che gli animali vivi facevano irruzione in Biennale. Già nell’edizione precedente Jannis Kounellis aveva riproposto la celebre installazione con i cavalli; in questa del 1978 si era limitato a un pappagallo. Oggi non so se in mostra si potrebbero utilizzare animali in questo modo. Avevate avuto problemi particolari? Vi eravate posti il problema etico circa la presenza di questi animali?

[A.B.O.] In realtà il tema ci permise di organizzare una mostra caratterizzata da un atteggiamento che definirei «libertino», cioè senza limitazioni, senza moralismi e senza nemmeno il sospetto di uno sfruttamento. Questo è molto importante. Ci sembrava anzi di produrre un invito alla partecipazione, un invito all’umanità in tutti i suoi aspetti.

[C.R.] Lei prima ha nominato la Land Art come un momento di apertura alla riflessione sulla natura di stampo prettamente anglosassone. In Italia possiamo parlare di Land Art in senso stretto? Mi sembra che da parte degli artisti italiani ci fu più un interessamento verso il valore della materia.

[A.B.O.] È ovvio, anche perché tenga conto che alcuni decenni prima c’era stata l’affermazione dell’Informale, dell’Action Painting: una liberazione totale e un’apertura alla possibilità di una creatività che poteva toccare ogni ambito.

[C.R.] La Biennale precedente, nel 1976, si era occupata di ambiente. Un tema anche questo ampiamente indagato, tanto da essere stato al centro della biennale Trigon già nel 1967. Possiamo dire che «Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura» fu una prosecuzione di quell discorso?

[A.B.O.] Si trattava del momento più maturo per arrivare a presentare gli sconfinamenti che abbiamo documentato con la mostra. Era naturale arrivare a questo punto di riflessione. La Biennale del 1978 aveva anche superato quello che sembrava un impegno politico, in cui da parte degli artisti prevaleva una sorta di necessità di partecipare ai movimenti politici. Lo facevano attraverso delle forme che erano metaforiche, simboliche. Volevamo anche superare un certo disagio dato dalla situazione politica. L’arte può essere un farmaco, può avere la capacità di curare.

[C.R.] Dobbiamo ricordare che insieme a lei gli altri curatori erano Ammann, Del Guercio e soprattutto Filiberto Menna…

[A.B.O.] Fu un dialogo. Debbo proprio dire che non c’erano dei gap relazionali, delle distanze teoriche, ma una partecipazione franca, e poi anche una fiducia nei confronti miei e di Ammann da parte degli altri commissari, che accettarono le aperture proposte e si calarono nel tema partecipando attivamente con le proprie indicazioni, anche storiche. Fu a tutti gli effetti una mostra equilibrata. Senza attriti e senza contrasti.

[C.R.] Cosa non facile. Nella storia della Biennale possiamo dire che non è sempre stato così. Lei, d’altronde, lo sa bene. Quell’edizione fu infatti l’inizio di un lungo rapporto che lei ha avuto con l’istituzione già l’anno dopo…

[A.B.O.] Con Harald Szeemann abbiamo organizzato una mostra sui giovani artisti che è stata molto importante in quanto ha portato all’attenzione degli emergenti, che nel tempo si sono poi confermati produttori di un’arte internazionale. Io ho collaborato a molte Biennali, fino ad arrivare alla Biennale del 1993 di cui sono stato il direttore.

[C.R.] Possiamo dire che l’esperienza della Biennale nel 1978 fu d’ispirazione per quella da lei organizzata nel 1993? Mi riferisco soprattutto al fatto che quest’ultima, la XLV edizione, fu totalmente all’insegna dello sconfinamento.

[A.B.O.] Sì. Io per carattere sono smodato, aperto e non circoscritto nella regola e l’arte è sconfinamento, sorpresa, avventura. In qualche modo la Biennale mi ha permesso di creare un teatro espositivo nelle varie situazioni alle quali ho collaborato, portando specialmente al risultato questa idea di un’arte multimediale, transnazionale, multidisciplinare.

[C.R.] Che cosa pensa della scelta del Padiglione Italia di quest’anno di concentrarsi appunto su temi quali l’ecologia e l’Antropocene? È possibile per l’arte dire ancora qualcosa al riguardo?

[A.B.O.] Credo che l’arte e la Biennale stessa abbiano svolto una funzione portando nel dibattito una consapevolezza e confermando un appuntamento che è teso sempre al dialogo e al confronto e non all’isolamento. In un momento drammatico come quello attuale, per via della guerra in Ucraina, è molto importante che la Biennale abbia un’apertura. È un modo anche per combattere alcune sensazioni che si sono manifestate negli ultimi dieci anni, come il sovranismo, il nazionalismo di alcuni Paesi del Nord Europa, che però, attraverso l’arte, possono testimoniare come l’arte sia sempre un’avventura, un modo per superare l’io creativo singolare dell’artista in sé e affermare un «noi», un afflato collettivo che in qualche modo permette al grande pubblico della Biennale di assumere la consapevolezza di come l’arte parli di tutti.
Io penso che l’arte sia per sua natura aperta al dialogo e al confronto. Permette una conoscenza che supera il piacere, la degustazione dell’opera in sé, per arrivare ad assumere una consapevolezza della nostra condizione. Io ho sempre lavorato con questa apertura (sa che è stata organizzata una mostra su tutta la mia vita al Castello di Rivoli a Torino?) e ho sempre avuto nei confronti della critica d’arte un atteggiamento comportamentale. Il critico non è un testimone freddo, distaccato, bensì partecipe; con i suoi temi conferma come in qualche modo il valore del «noi» superi quello dell’«io». Credo che la vanità sia il prêt-à-porter del narcisismo, è un aspetto antropologico che attiene al carattere di tutti gli uomini. Io ritengo che la Biennale, come tutte le mostre, debba confermare la natura dell’atto creativo. Questo è quanto alla fine voleva documentare la natura della mia mostra del 1993, che s’intitolava «Punti cardinali dell’arte».

[C.R.] Sul suo narcisismo si potrebbe scrivere un trattato, ma credo che lei abbia sconfinato anche in quello di altre personalità. Considerando la quantità di persone a cui diede la possibilità di fare una mostra nel 1993, credo sia necessario sottolineare anche un tratto di grande generosità. Ciascun curatore coinvolto poté esprimere e portare la propria visione.

[A.B.O.] Be’, è ovvio.

[C.R.] Non direi che è così ovvio! Ci sono tanti curatori che invece si sono ben guardati dal far emergere altre persone. Mi spiega perché ritiene che sia ovvia questa generosità?

[A.B.O.] Dico ovvio perché è un fatto caratteriale. Non a caso io mi sono messo a nudo. L’arte mette a nudo, e mette a nudo anche chi riflette sull’arte. Il critico non è uno che va all’appuntamento in doppiopetto. Secondo me il critico deve assolutamente essere indeciso a tutto, pronto a verificare, controllare e leggere anche i movimenti più nascosti, a prendere tempo, aprire e permettere ad altri artisti di assumere delle forme che permettono poi di arrivare a opere compiute.

[C.R.] Una delle osservazioni che le erano state fatte sulla mostra del ’93 è che era una stata mostra molto autobiografica, perché in qualche modo riprendeva alcuni punti di cui lei si era sempre occupato. D’altronde era la sua Biennale…

[A.B.O.] È vero, non lo posso negare.

Conversazione con Achille Bonito Oliva di Clarissa Ricci

Achille Bonito Oliva è critico d’arte di fama internazionale. Si è laureato in Lettere partecipando attivamente alla temperie culturale legata al Gruppo 63. Assertore di una funzione attiva del critico a fianco dell’artista, è stato il teorico del movimento artistico della Transavanguardia. Ha esplorato snodi della storia dell’arte quali il manierismo, le avanguardie storiche, le neoavanguardie. Curatore generale della Biennale di Venezia del 1993 e co-curatore della Biennale di Venezia del 1978, ha promosso l’arte contemporanea con centinaia di mostre ed eventi (tra gli altri: «Contemporanea, 1973; Vitalità del negativo nell’arte italiana» 1960/70; «Aperto 80», 1980; «Minimalia», 1997; «Le Tribù dell’Arte», 2000). Nel 2021 la mostra «A.B.O. Theatron. L’arte o la vita» presso il Castello
di Rivoli ne ha ricostruito compiutamente il percorso intellettuale.

Clarissa Ricci è

docente presso l’Università di Bologna. La sua ricerca si concentra sullo studio delle esposizioni, con particolare interesse per i network fra biennali, fiere e mercato. Ha scritto numerosi saggi sulla storia della Biennale di Venezia, fra cui il suo ultimo volume, Aperto 1980-1993. I giovani alla Biennale di Venezia (Postmedia Books, Milano 2022), dedicato alla sezione degli artisti emergenti. È cofondatrice ed editor della rivista accademica «OBOE Journal. On Biennials and Other Exhibitions».