Il Padiglione Italia, per la prima volta nella sua storia, presenterà l’installazione di un solo artista, Gian Maria Tosatti, che ha realizzato un’installazione ambientale dedicata a una grande domanda. Due grandi domande, in realtà. La prima è il ruolo della cultura in questa così complessa contingenza contemporanea che vede tante crisi in atto: quella ambientale, sicuramente, trasversale a tutto il pianeta; e adesso, ovviamente, anche quella bellica, molto vicina a tutti noi.
La seconda domanda che pone è sul piano storico: com’è stato possibile l’autoinganno che l’Occidente ha perpetuato per tanti decenni mettendo in atto un modello che se da un lato ha avuto l’ovvio pregio di migliorare le condizioni di vita di molte persone e di portare benessere, dall’altra ha inquinato, senza mai pagare per questo, fondamentalmente perché non sono mai state messe in atto politiche chiare che permettessero una compensazione, almeno monetaria, al danno ambientale che si stava compiendo?
Atto I: il corpo
[Luigi Cerutti] Faremo quindi una breve conversazione in due atti: il primo atto ha come parola chiave «il corpo». Una parola che lei, ovviamente, ha utilizzato molto spesso e a cui molto spesso si è riferito, sia in senso astratto che in riferimento al «corpo come macchina». Anche nella mostra centrale di questa Biennale, a cura di Cecilia Alemani, vi è una capsula dedicata al Post Human, parola chiave con Jeffrey Deitch nell’arte degli anni Novanta, quando il mondo conobbe l’artificialità, la plastica, il corpo mutevole, in un momento storico in cui vi era la convinzione, e forse la speranza, che la scienza avrebbe salvato il pianeta, lo avrebbe salvato al di là di tutte le nefandezze di l’uomo poteva essere capace.
Come risposta a quella capsula, quindi, il primo punto di riflessione è proprio quello sul corpo. In un contesto come quello in cui viviamo, che vede ancora la centralità del corpo nella produzione del lavoro e nella produzione di ricchezza (perché di fatto è attraverso di esso che gran parte del lavoro si estrinseca, soprattutto in un sistema come quello italiano, ancora largamente manifatturiero e scarsamente digitalizzato rispetto alle altre grandi potenze del G7), in un mondo che ha creato il metaverso, dove questo corpo non esiste in quanto fatto fisico ma in quanto pura proiezione del sé, che ruolo ha ancora il corpo?
[Christian Marazzi] Dunque il corpo. Il problema del corpo è che ha subito nel corso del tempo una sua negazione dovuta alla digitalizzazione e ovviamente anche alla globalizzazione, il tutto acuito dallo sviluppo e dall’esplosione della crisi pandemica. Il corpo ha così subito una rimozione. Durante la pandemia ci si è chiesti: dov’è finito il corpo? Ci siamo interrogati circa la sua destinazione, per poi scoprire che il vero tema non era la sua scomparsa, bensì la sua modificazione, la riconfigurazione all’interno di questa grande rete digitale. Innanzitutto, c’è da capire che la guerra ci ha riportato brutalmente e drammaticamente il corpo. Lo ha rimesso al centro della nostra vita, dei nostri sguardi. E interrogarsi sul corpo mi sembra quindi che sia allo stesso tempo interrogarsi sul lavoro, su come esso è cambiato in tutti questi anni, e sui processi di risignificazione del corpo. Credo che siano queste due cose quelle che il concetto di corpo ci impone oggi.
Partiamo dal lavoro: un lavoro che nell’ultimo decennio, dall’inizio degli anni Ottanta, si è modificato, nel senso che si è eterogeneizzato, si è moltiplicato nelle sue forme. Oggi noi abbiamo un pluriverso (e non più un universo) lavorativo, contrassegnato dall’aumento del lavoro a tempo determinato, del lavoro parziale, del lavoro a chiamata. Sono tutte caratteristiche, diciamo vettori, lungo i quali il mondo del lavoro si è modificato, trasformato, lasciandosi alle spalle il lavoro a tempo indeterminato, che dal punto di vista della centralità è sempre stato rappresentativo del Novecento, pur non essendo statisticamente il maggioritario. È sempre stato il lavoro a tempo indeterminato a fungere da modello di riferimento per la costruzione stessa dello Stato sociale, occupando la mente collettiva. Ancor oggi questi parametri sono scolpiti a tal punto nella nostra mente che un lavoro a tempo determinato è considerato, come diceva uno psicologo del lavoro, una sottrazione, un di meno rispetto a un pieno che però di fatto non c’è più. Questa è la prima considerazione che mi sembra importante per il nostro tema della sparizione del corpo, e della sua pluralizzazione al lavoro.
L’altra questione legata al corpo è la digitalizzazione, e il suo effetto di nascondimento del corpo, che viene visto sempre intermediato da uno schermo. Di per sé la digitalizzazione è quindi la palestra della costruzione di un metamondo, cosa che ha avuto un’accelerazione nel corso degli ultimi due decenni, e che è naturalmente esplosa durante la pandemia e con il telelavoro. Questa idea di smarrimento, di sparizione del corpo e forse, meglio, di sua rimozione pone alcune questioni centrali. La digitalizzazione si basa sul concetto di lavoro digitale. A sua volta il lavoro digitale si basa sul digitus, il dito, un organo preciso del corpo. Lo diceva Antonio Casilli, nel suo Schiavi del clic (Feltrinelli, Milano 2020): il lavoro digitale, benché si cerchi di negarlo, è un lavoro che ha comunque a che fare con il corpo, con la fisicità. E questo pone un problema che allude a un’altra questione: se l’economia ha a che fare con la definizione della teoria del valore, che cos’è il valore oggi, che cos’è il valore economico quando il lavoro è così digitalizzato e distanziato?
E l’altra questione è appunto la sparizione del corpo. Che è però una sparizione parziale. Dietro alle reti, infatti, ci sono i corpi, moltissimi corpi. Ci sono milioni di corpi. Come quelli dei manutentori e dei gestori delle reti. Di coloro che correggono i bug, o gli spazzini della rete, che aiutano a tenerla, per così dire, in ordine. Di coloro che si trovano a lavorare dietro alle grandi piattaforme, e che lo fanno dal loro tinello di casa, nello scantinato. C’è, insomma, un’economia dei corpi al lavoro dietro l’immateriale. Gli stessi corpi che vediamo nelle strade di Mariupol forse e che quindi ritornano a noi in tutta la loro forza. Il corpo è sempre lì. Dobbiamo capire che questo Novecento pare non finire mai, sembra che i nostri piedi siano impigliati in questo Secolo breve (che poi è ormai lunghissimo) e non riusciamo a staccarli.
Pensiamo anche al corpo e al rapporto dell’uomo con le materie prime: oggi si parla di gas naturale, di petrolio, addirittura di carbone. Tutto questo concorre a definire il nostro tempo come un interregno, dove il vecchio muore ma il nuovo non nasce. Il corpo è quindi il luogo in cui si condensa questa tragicità che è anche speranza, la possibilità di ricomporre quello che è stato polverizzato attraverso una modificazione del modo di lavorare e di produrre.
Allo stesso tempo, dentro questo ritorno del corpo volevo introdurre anche il fenomeno della grande dimissione (The Great Resignation) che ha caratterizzato gli Stati Uniti postpandemia. Una sorta di esodo dal lavoro liberista, così come si è definito negli ultimi trentacinque anni: un lavoro iperproduttivista, iperstressante, demotivante, poco gratificato e poco riconosciuto. Dopo la pandemia tutto sembrava ripartire; e in effetti rispetto al periodo del confinamento tutto è ripartito. Per molti che erano rimasti a casa, in particolare negli Stati Uniti, beneficiari anche di sussidi, è stato però impossibile accettare semplicemente di ritornare. Da qui il grande rifiuto. The Great Resignation è un fenomeno che tocca qualcosa come il dieci per cento della forza lavoro occupata nella popolazione attiva in termini di numero assoluto negli Stati Uniti. È un fenomeno che ha interessato una media di 4,2 milioni di persone a partire da luglio 2021. E continua a essere un fenomeno importante. Perché? Perché la pandemia è stato il momento in cui molte persone hanno capito, o si sono poste l’interrogativo: «Ma io devo continuare a vivere per lavorare o devo dare un nuovo senso alla mia vita? Insomma, si vive per lavorare o si lavora per vivere?». Perché il fatto di dover restare a casa, con i propri figli, con la propria compagna, ha permesso di capire che nella vita ci sono altre cose, oltre al lavoro, al di fuori di quell’isteria tipicamente liberista.
Quindi questa resignation potrebbe essere una risignificazione del corpo e del lavoro. È stata anche condotta un’inchiesta da Microsoft e nell’ultimo trimestre dell’anno scorso si è notato che le persone che hanno rinunciato al lavoro sono poi rientrate nel mondo professionale con salari più alti, come se avessero potuto esercitare una maggiore forza contrattuale rispetto a coloro che sono stati fedeli ai propri posti di lavoro originari. Quindi, in un certo senso, l’esodo e la risignificazione sono stati più paganti che non la fedeltà, proprio nei termini della Exit, voice and loyalty teorizzata da Albert Hirschman [la traduzione italiana del suo saggio è pubblicata da il Mulino col titolo Lealtà, defezione, protesta, Ndr]. È indubbio che la pandemia abbia portato al centro del cuore e dei nostri pensieri il corpo. Un corpo sia rimosso che curato. La pandemia ha infatti definitivamente istituito la parola «cura». Siamo diventati, volenti o nolenti, una società della cura. Curiamo i corpi dei feriti, i corpi dei morti, i corpi di chi è vivo, i corpi degli anziani, i corpi dei bambini, il corpo dell’ambiente, della casa, del territorio. Insomma, è tutta una cura. E tutto parte da questa consapevolezza di riacquisto del nostro corpo. È chiaro, infine, che il corpo ha una sua forza quando è collettivo. Un corpo solo è un corpo che vive la solitudine e l’isolamento, è un corpo povero. Mentre un corpo collettivo è un corpo rivoluzionario, senza che questo abbia una connotazione ideologica, ma nel senso che è capace di rivoluzionare, di ritrasformare. In questo l’arte ha un ruolo enorme. L’arte deve in qualche modo rappresentare questa rivoluzione, questa logica e questo processo di corpi in trasformazione, di corpo nella natura che ha tutto questo al suo interno.
Atto II: l’ambiente che entra nel lavoro
[L.C.] Lei ha toccato un argomento, centrale anche per il Padiglione italiano, che è quello relativo all’evoluzione del lavoro provocata dalle rivoluzioni anche ambientali che si verificano e alle nuove politiche che verranno adottate dai Paesi. Lo vediamo ora in Italia con il mercato dell’auto che deve riconvertirsi all’elettrico, fenomeno necessario ma dalle pesanti ripercussioni sui modelli industriali, sui contratti collettivi nazionali e sull’occupazione. Questo fenomeno ricomprende anche l’esigenza che sembra manifestarsi «dal basso», e che la pandemia pare aver reso più urgente, di orari flessibili, lavoro da casa, settimana di quattro giorni. In tutto questo la natura e l’ambiente sembrano suggerirci una via. Ma come intraprenderla?
[C.M.] Inizierei col dire che mi ha molto colpito quanto successo proprio recentemente in Amazon nella filiale di Staten Island dove dopo la sconfitta dell’anno scorso, per quanto riguardava la possibilità di avere un sindacato, quest’anno tale impostazione si è affermata. La cosa più eclatante è che dopo quella pesante sconfitta, per un sindacato all’interno di Amazon, massimo simbolo dell’economia digitale, gli organizzatori si siano ispirati al manuale scritto e al modello di quello del settore siderurgico americano degli anni Trenta. Questa è una faccenda interessante circa le forme di autorganizzazione, ispirate addirittura a questo secolo che sembra non finire mai. È un ripensamento, vorrei dire, per quanto riguarda anche le modalità di contrattazione nazionale, un ripensamento al passato. Come diceva un vecchio professore di economia: «È meglio scoprire vecchie verità che inventare nuove stupidaggini».
La seconda cosa che mi viene in mente è che i processi di trasformazione del lavoro, dalla delocalizzazione alla concentrazione di capitale, rischiano di incombere sempre di più su tutta una serie di piccole e medie imprese e start up che sono la ricchezza biologica, di biodiversità, di un’economia diffusa. Nuove abitudini e diverse policy impattano sulle piccole e medie imprese che non sempre hanno la forza di sostenere cambiamenti radicali, quando non ne sono attori protagonisti. E questo ha impatti economici sulle comunità, così come vi sono stati impatti sul rapporto tra lavoro e tempo di lavoro che ha di fatto molto corroso il confine tra lavoro e vita. Restare sempre in rete è un tema dato troppo per scontato. Nel libro Radical Markets [di Eric Posner e Glen Weyl, pubblicato nel 2018 da Princeton University Press, Ndr] c’è un capitolo in cui si dedica particolare attenzione al fatto che i dati sono lavoro. Big data is labour. Tutti i dati che noi produciamo sono un valore, frutto di un lavoro e poi utilizzati da altri lavoratori per comporre la base dei big data che vengono messi a ricavo dalle società in svariati modi. La partenza di tutto questo è la nostra produzione singola e propria come lavoratori della rete che ci unisce, come produttori di dati. Credo che questa cosa debba essere tenuta presente anche nella contrattazione collettiva, legata al tema della produttività. Noi siamo produttivi. E lo siamo sempre di più in modi che non vengono, come dire, contabilizzati, statisticamente intercettati. Noi acquistiamo un biglietto di un treno alla stazione mediante uno smartphone e produciamo dati, contemporaneamente permettiamo alla società di trasporto di risparmiare, se così possiamo dire, lo stipendio di un bigliettaio che infatti sta scomparendo. E questa produzione di dati che verranno usati, sul fatto che io nel finesettimana vado al mare, come mi viene ripagata? Non vi è una traccia monetaria di tutto questo lavoro e non lasciare traccia monetaria vuol dire che questo nostro contributo effettivo ed effettuale alla creazione di ricchezza non appare nella definizione della quantificazione del prodotto e quindi non appare o non risulta nel calcolo della nostra produttività. La produttività di fatto è Pil, prodotto fratto il numero di ore lavorate. Se una parte del numeratore scompare, si capisce che il risultato è che la produttività risulti piatta come lo è statisticamente da una ventina d’anni a questa parte, con effetti disastrosi per il calcolo degli aumenti salariali. Dico questo perché è un tema di cui non si parla quasi mai in sede di contrattazione. Perché? Perché ci si limita a dei parametri ormai superati.
La seconda cosa è che per esempio, appunto, come si diceva, la digitalizzazione e il fatto di essere costantemente connessi fa sì che anche nei lavori a tempo parziale esiste una presenza e partecipazione totale. Questo, soprattutto dopo la pandemia, dovrebbe imporre nella contrattazione collettiva un diritto, ma forse un obbligo, alla disconnessione, sia per questioni umane sia per questioni salariali, perché in questo caso in realtà il tasso di occupazione è a tempo pieno, perché tu stai garantendo la tua disponibilità (e guai a non garantirla!), ma il contratto è a tempo parziale. Credo poi che siamo tutti d’accordo nel dire che dobbiamo ritagliarci, riconquistare degli spazi, dei tempi di vita, insomma, dentro i quali, appunto, ri-significare la nostra vita, il nostro corpo, e il nostro lavoro stesso.