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Capitolo 4
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Il Grande Inganno
La querelle des lucioles
Capitolo 4: Il Grande Inganno

La querelle des lucioles

Da Pasolini a Sciascia a Didi-Huberman (che le identifica con l’immagine stessa della sopravvivenza) le lucciole continuano a essere metafora viva, estetica, politica e ambientale

Francesco Zucconi

Quando scrive Il vuoto di potere in Italia, meglio noto come l’«articolo delle lucciole», per Pier Paolo Pasolini è già tutto finito da tempo. Sono lontanissime Casarsa della Delizia e le passeggiate bolognesi degli anni Quaranta. Lontani anche Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), per non parlare delle sperimentazioni cinematografiche ai margini della Capitale: «Accattone» (1961) e «Mamma Roma» (1962), concepiti come etnografia artistica di forme di vita e modi di abitare al contempo semplici ed esuberanti, non ancora compromessi con la società dei consumi. Con gli anni Settanta Pasolini non farà che confrontarsi con l’inarrestabile, banale, violenta modernizzazione della società italiana. Ma, già dalla metà degli anni Sessanta, il suo sguardo (la sua macchina da presa) ha abbandonato la periferia romana raggiunta dal boom economico per spingersi altrove: in Palestina, Marocco, India, Yemen.

Quello uscito nel febbraio del 1975 sulle pagine del «Corriere della Sera» è un articolo di denuncia e uno sfogo, un’esplicitazione, nero su bianco, di una convinzione maturata lentamente e anticipata, nella gamma del chiaroscuro, attraverso poesie, film, opere teatrali. Come spesso accade nelle prese di posizione di Pasolini, il ragionamento inizia con una frase cristallina, con la ricognizione di uno stato di cose: «Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole». 1 Il tono descrittivo, il linguaggio denotativo vira dunque repentinamente rivelando il carattere allegorico del discorso: le lucciole stanno per qualcosa d’altro, per le forme di vita arcaiche, per le tradizioni della vita contadina, per quel substrato popolare che ha caratterizzato il Paese per secoli, prima di essere distrutto dalla modernità, dalle fabbriche e dai frigoriferi, dai grandi e piccoli elettrodomestici. Riga dopo riga, emerge dunque un bersaglio polemico al quale sferrare un attacco: i partiti politici e gli intellettuali, ma anche la società civile considerata nel suo insieme, complici di un «nuovo potere» fondato sull’esaltazione della tecnica e su un’idea del progresso livellata sullo sviluppo economico. La denuncia si mescola infine al dolore di chi la scaglia, è un grido sempre più disperato: «Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza». 2

Nel momento in cui forgia la straordinaria metafora delle lucciole, a Pasolini restano nove mesi di vita. Lavora a «Salò o le 120 giornate di Sodoma» (1975), del quale non farà in tempo ad assistere alla prima, e continua a scrivere. Affila la penna per denunciare la degenerazione della società, l’estinzione del popolo. Ripropone espressioni apocalittiche già utilizzate nei mesi precedenti come «abiura», «mutazione antropologica» e «genocidio culturale».

Dopo l’assassinio di Pasolini, il primo a riprendere l’immagine dei meravigliosi coleotteri è Leonardo Sciascia. È il 1978, siamo nell’incipit di L’affaire Moro, il pamphlet sul sequestro e l’omicidio dell’ex presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, per mano delle Brigate Rosse: «Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri». 3 Il testo prosegue con un esplicito riferimento a Pasolini, «fraterno e lontano», e all’esigenza di portare avanti la riflessione su quanto di sconvolgente sta accadendo in «questo terribile Paese che l’Italia è diventato». Riflettere e denunciare, ma evitando toni catastrofici, sembra dire tra le righe Sciascia, perché chiunque pretende di annunciarla come un profeta, della fine è molto facilmente un sintomo.

Da Dante a Leopardi, da Pasolini a Sciascia, la figura delle lucciole ha incantato scrittori e poeti. Oggi più che mai sembra essere un ottimo tema per un corso di letterature comparate. Ma spostando lo sguardo verso i territori della storia e della teoria delle arti s’incontra il lavoro di Georges Didi-Huberman, il suo tentativo di mettere a fuoco la questione delle lucciole come problema al contempo estetico e politico. Anche per lui, riflettere sulle lucciole significa mettere in gioco un’esperienza biografica, il ricordo di una percezione: «Io stesso ho vissuto a Roma, una decina d’anni dopo la morte di Pasolini. In un luogo ben preciso sulla collina del Pincio – un luogo chiamato “bosco di bambù” –, c’era una vera a propria comunità di lucciole […] tra il 1984 e il 1986 le lucciole non erano scomparse, neppure a Roma, neppure nel cuore urbano del potere centralizzato». 4

Survivance des lucioles esce in Francia nel 2009 e subito viene tradotto in italiano e in diverse altre lingue. Così come in molti altri suoi libri, Didi-Huberman esprime un amore intellettuale sconfinato per Pasolini, eppure dalla prima all’ultima pagina non smette di svincolarsi dalla sua presa apocalittica. Adotta una serie di escamotage per sottrarre la critica intellettuale al tono assolutizzante (l’idea che non ci sia più niente da fare) che caratterizza Il vuoto di potere in Italia e altre prese di posizione di quel periodo. Da Pasolini, il bersaglio della querelle si allarga poi a Giorgio Agamben, autore di una delle più illuminanti traiettorie filosofiche degli ultimi decenni, ma anche lui portato a sottoporre le lettrici e i lettori delle sue opere alla «luce accecante di uno spazio e di un tempo apocalittici». 5 Aprendo un confronto teorico con Walter Benjamin, Aby Warburg e Hannah Arendt, ma anche con il lavoro di artiste come Renata Siqueira Bueno e Laura Waddington, Didi-Huberman non si limita a sostenere che le lucciole non sono estinte, ma identifica nella loro stessa immagine l’idea di sopravvivenza. Se considerate dal punto di vista estetico, le lucciole offrono un prezioso antidoto contro il «senso della fine». Proprio per la loro indole schiva, per l’attitudine a praticare i margini, per il carattere eccezionale ed epifanico delle loro apparizioni, per il ritmo intermittente della loro luce…, proprio per tutte queste ragioni, le lucciole sono ciò che non smette di sopravvivere. Stanno quando e dove vogliono. Inutile attenderle. Del tutto folle pretendere di catturarle. Chi spera di poterne osservare il bagliore deve assumere un certo atteggiamento: abbandonare ogni pessimismo, che la notte è buia e grande e chissà dove e quando appariranno; restare in agguato, come chi è pronto a valorizzare il più sfuggente, il minore tra gli eventi minori; non aspettarsi niente di spettacolare, non è un safari né uno show, ma un’esperienza immersiva, il rapporto tra la luce e il buio. Concepire le lucciole come un atteggiamento (in un certo senso, un metodo) da adottare nella ricerca artistica e sociale significa dunque rilanciare la ricerca pasoliniana degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta: contro il potere livellante del neocapitalismo, che agisce sui corpi, i gesti, le forme di vita, è necessario produrre immagini, conclude Didi-Huberman, capaci di «organizzare il nostro pessimismo. Immagini per protestare contro la gloria del regno e i suoi fasci di luce cruda. Sono scomparse le lucciole? Certamente no. Alcune sono proprio accanto a noi, ci sfiorano nel buio; altre se ne sono andate oltre l’orizzonte, cercando di ricostruire altrove la loro comunità, la loro minoranza, il loro destino condiviso». 6

Tornare oggi sugli scritti di Pasolini, Sciascia e Didi-Huberman significa lasciarsi stupire, ancora una volta. Ma, soprattutto, occorre accettare una sfida: tentare un possibile e necessario rilancio. Leggendo bene quanto si dice sia in modo diretto che tra le righe, sorprendentemente nessuno dei protagonisti della querelle des lucioles sembra affrontare la questione ecologica implicata nella metafora. Certo, Pasolini apre l’articolo parlando dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua e conclude sostenendo che darebbe in cambio «l’intera Montedison per una lucciola», ma il fuoco della polemica sta altrove, su ciò che le lucciole significano, sulla scomparsa della sua idea di popolo. Quello di Sciascia è in buona parte un omaggio a Pasolini, un modo per misurare una distanza e ciò che ne resta, l’esigenza di raccogliere la staffetta, proseguire da solo, a suo modo, il percorso nella notte della Repubblica. Da parte sua, Didi-Huberman ripensa la riflessione pasoliniana nel contesto teorico e critico dell’inizio del nuovo millennio. Fin dalle prime pagine sottolinea il carattere «poetico-ecologico» della questione delle lucciole, ma gli esempi attraverso i quali sviluppa il suo ragionamento rimandano perlopiù a tematiche storiche con al centro l’uomo e i suoi problemi: lo shock della modernità e la crisi dell’esperienza, il rapporto tra media e società, i fenomeni migratori interpretati come «scintille di umanità». Concentrandosi sul nome della lucciola, sulla lucciola come metafora e allegoria, si è forse evaso qualcosa. Considerando le lucciole per la luce che emettono e identificando in quest’ultima un sintomo di faccende in buona parte sconnesse dalla vita biologica e sociale dei coleotteri, a venire meno è la questione del corpo e dell’ambiente, la loro reciprocità.

Che cosa sono o possono essere, allora, le lucciole nello scenario contemporaneo, nella consapevolezza del riscaldamento globale, nell’esigenza di decostruire l’antropocentrismo, nell’affermazione delle environmental humanities e dunque della riflessione sul rapporto tra media e ambiente? Come interpretarle o, meglio, come cercare di smettere di interpretarle? Come uscire dall’allegoria o, quantomeno, come lasciare esprimere la loro potenza figurale e mediale in riferimento a nuovi temi e problemi?

Si tratta di domande alle quali è possibile rispondere imboccando sentieri diversi, che talvolta s’intrecciano ma che, più spesso, in nome di obiettivi comuni, si contraddicono. Guardando a Bruno Latour, al suo tentativo di riflettere su Gaia per ripoliticizzare l’immagine del mondo, potremmo annoverare le lucciole tra i membri, militanti e assenteisti al contempo, del «Parlamento delle cose», un organo politico nel quale possano trovare rappresentanza istanze umane e non umane. 7 O forse, riprendendo Timothy Morton, potremmo considerare le lucciole come entità, elementi particolarmente sfuggenti di quell’«iperoggetto» che è la biosfera terrestre nell’Antropocene. 8 Oppure, prolungando la riflessione di Karen Pinkus, potremmo concepire la proteina della luciferina e l’enzima della luciferasi, dai quali si sprigiona la luminescenza delle lucciole, come un fuel: un carburante, una forza in potenza, al pari del Caffè, dell’Olio di balena, del Vello d’oro e di altre sostanze, reali e fantastiche, capaci di alimentare l’immaginazione letteraria e il pensiero critico. 9

Porsi domande e azzardare ipotesi di questo tipo non significa sottoporre a green washing il pensiero di intellettuali la cui forza risiede nell’anacronismo, nella capacità di restare contemporanei proprio sottraendosi al trend. Al contrario, solo tenendo insieme le diverse tappe del ragionamento (una specie di storia delle metafore, un’archeologia del figurale in quanto strumento dell’intelligenza poetica e politica) diventa possibile aprire la querelle des lucioles al tempo presente.

Dall’osservazione degli effetti del boom economico da parte di Pasolini alla sopravvivenza di gesti di pathos nei corpi dei migranti che attraversano le frontiere d’Europa, messa in evidenza da Didi-Huberman, fino all’affermazione di un nuovo ambientalismo senza più l’idea rassicurante di Natura, le lucciole sono qualcosa di sempre più concreto, corporeo, materiale, eppure non smettono di rimandare anche ad altro da sé. Sono metafora viva o, meglio, sono vita e metafora. Sopravvivono e uniscono, creano alleanze. Intessono un filo invisibile che attraversa stagioni e temi di lotta diversi, in un campo che si fa sempre più vasto, sempre più impersonale. Facile smarrirsi, ancora più facile abbattersi. Ma da qualche parte, le lucciole…

Francesco Zucconi

Francesco Zucconi è ricercatore all’Università Iuav di Venezia, membre associé al Centre d’Histoire et de Théorie des Arts, Ehess, e fellow presso l’Institut des Migrations di Parigi. È autore di diversi libri e articoli riguardanti la teoria del cinema, i media e la cultura visuale contemporanea.

[1] P.P. Pasolini

P.P. Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, «Corriere della Sera», 1 febbraio 1975, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 2000, p. 130.

[2] P.P. Pasolini

Ivi, p. 134.

[3] L. Sciascia

L. Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano 1994, pp. 12-13.

[4] G. Didi-Huberman

G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Minuit, Parigi 2009, tr. it. di C. Tartarini, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 31.

[5] G. Didi-Huberman

Ivi, p. 48.

[6] G. Didi-Huberman

Ivi, pp. 95-96.

[7] B. Latour

B. Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Parigi 2015, tr. it. di D. Caristina, La sfida di Gaia: Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020.

[8] T. Morton

T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013, tr. it. di V. Santarcangelo, Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo, Not | NERO editions, Roma 2018.

[9] K. Pinkus

K. Pinkus, Fuel: A Speculative Dictionary, University of Minnesota Press, Minneapolis 2016, tr. it. di R. Donati e C. Ragghianti, Carburanti. Dizionario per un pianeta in crisi, Ombre Corte, Verona 2021.