Se avessimo dato la Montedison per una lucciola, credo non sarei mai nato: mio nonno, operaio della chimica, per mantenere la famiglia venne persuaso da qualche ufficio di via della Moscova a migrare verso Porto Marghera, aprendo così alle possibilità di nuovi rami genealogici. Doveva badare a una famiglia che si direbbe eteronormativa e «sedotta dalle promesse del boom economico», dall’approdo piccoloborghese schifato da Pasolini. Da qualche anno mi ricapita di vedere qualche lucciola tra le siepi notturne, in quelle sere dove si guarda il cielo in cerca di comete. Da qualche anno può capitare di vedere una fila di nuove luci nel cielo, quelle dei satelliti Starlink, che portano in giro per il mondo una connessione internet a banda larga a bassa latenza: promettono di colmare il digital divide tra i Paesi ricchi e quelli poveri. I poeti però non vanno presi alla lettera, e gli imprenditori ancora meno; la banda larga parla la stessa lingua di altre conquiste.
All’inseguimento di continui strappi tecnologici il presente ormai sbuca oltre la soglia della verosimiglianza: ci sfugge, ma segue regole antiche, schemi già collaudati. Scrive Amitav Ghosh che la mente deve abituarsi a un’epoca dove l’improbabile si propone come norma, nell’India dov’è nato così come nella New York dove vive, tra alluvioni, tempeste, siccità e frane e tornado che rimodulano la nostra idea di ordinario. Ne La grande cecità, un’esplorazione delle possibilità letterarie nella confusione dell’emergenza climatica, Ghosh suggerisce che potrebbe essere una buona idea dotarsi di un buon senso catastrofista, che secondo l’autore ha sempre accompagnato il percorso dell’essere umano sulla Terra, fino a quando «l’istintiva consapevolezza dell’imprevedibilità del pianeta» è stata gradualmente soppiantata dal sistema di idee alla base delle teorie scientifiche «come quella di Lyell», il geologo.
Ovvero: il gradualismo, l’idea che «la natura non fa salti», un punto di non ritorno nella storia del pensiero occidentale. Il primo libro di Lyell viene regalato a Charles Darwin, un ventiduenne imbarcato sul Beagle. Per più di cinque anni Darwin osserva e studia l’emisfero australe, dove verifica con i propri occhi le intuizioni di Lyell: come appunta Elizabeth Kolbert (La sesta estinzione), Darwin «diventa più lyelliano di Lyell», finendo per applicare le idee del maestro al mondo organico: non solo i paesaggi ma anche i viventi, nel tempo, si trasformano. A volte però scompaiono: si estinguono, perché capita che ogni tanto la natura i salti, in realtà, li faccia. Negli ultimi decenni sembra farli anche volentieri. Stiamo attraversando una sesta estinzione, non ci sono più dubbi: ma noi chi?
Il lavoro geologico e quello letterario sono accomunati da una pulsione indagatrice, dalla volontà di snodare l’intreccio delle cose successe, nella speranza che a chiudere la collana delle cause e degli effetti ci sia qualcosa, almeno un gancetto, qualcosa a cui appendersi. Ricostruire le premesse che hanno storto i tempi che ci sono toccati, l’appiattimento di un orizzonte futuro, è più che possibile; si scrivono migliaia di libri a riguardo, si formano movimenti ecologisti. La realtà però non risponde alle logiche del romanzo giallo, piuttosto del noir: sappiamo chi sono i colpevoli, gli stessi che spesso ci danno un lavoro o s’incaricano dei nostri risparmi: il protagonista poi, questo noi, è affidabile quanto lo può essere il misero 12% della popolazione mondiale, la persona bianca istruita.
La persona bianca istruita si è sparsa nel mondo ma il suo nido è il continente europeo. Soltanto un osservatore esterno può giudicarne in ultima sede l’ideologia di un Progresso che viene raccontato come universale: in Provincializzare l’Europa, Dipesh Chakrabarty (nato in Bangladesh, cresciuto in India) ha sistematizzato la critica della modernità avanzata da un Occidente che ha imposto come naturali le proprie idee di sviluppo, senza prevedere alcuno spazio per le modernità alternative che possono nascere o già modellano le società altre. Attraverso il suo racconto, dice Chakrabarty, la storia «ufficiale» è diventata (e forse è sempre stata) una sorta d’istituzionalizzazione dello sguardo europeo sul resto del mondo; uno sguardo che, per di più, si è forgiato e solidificato proprio negli anni in cui emergeva la struttura capitalistica. Il resto del pianeta, automaticamente, viene presentato come qualcosa di obsoleto o anacronistico, destinato a uno sforzo teleologico, l’evoluzione inevitabile e definitiva nelle forme della modernità occidentale. Da storico, Chakrabarty cerca di sottolineare come il racconto del mondo sia in realtà un canto polifonico di storie locali, di voci e presenti possibili che non devono per forza essere sacrificati sull’altare di un unico futuro. Lo sguardo europeo, compresa la penna che muove il mio dissenso, è proiettato da una coscienza oscura che si è moltiplicata nell’uso di una violenza che non è solo teorica; nel corso dei secoli l’impresa coloniale, com’è noto, è stata giustificata proprio a partire da un presupposto «civilizzatore». Le giustificazioni sono racconti, e i racconti sono pacchetti di informazioni: le informazioni, oggi, corrono nei cavi.
Nel 1848 Michael Faraday pubblicava uno studio sulle formidabili capacità isolanti del gutta percha, italianizzato in guttaperca; una gomma naturale che, nel giro di un decennio, avrebbe permesso la posa dei cavi telegrafici sul fondo dell’oceano. Il 16 agosto 1858 la regina Vittoria scriverà, online, al Presidente degli Stati Uniti d’America: «La regina desidera congratularsi con il presidente per il successo di questa grande impresa internazionale, in cui la regina ha il più grande interesse. Sua maestà spera che il presidente sarà d’accordo sul fatto che il cavo elettrico si rivelerà un ulteriore collegamento tra le nazioni, la cui amicizia è basata su interessi comuni e stima reciproca». La regina Vittoria e il presidente Buchanan s’inchinano attraverso un cavo di guttaperca pesante 2mila tonnellate. Per produrre una tonnellata di lattice servivano 900mila tronchi. E crescendo la rete telegrafica, crescevano anche gli investimenti sull’isolante: la linfa era raccolta da manodopera sottopagata che si arrampicava sugli alberi con nelle mani il machete. Il lattice veniva poi lavorato (nelle colonie inglesi non esistevano la meccatronica e i sindacati) e spedito a Londra. Nel 1883 il Palaquium gutta era quasi scomparso, e con l’albero la parola. Restavano ecosistemi distrutti, schiavi senza lavoro, mercati deserti.
La storia della guttaperca getta un filo di quella rete di sofferenza, ineguaglianza, e scialo di risorse che si attiva ogni volta che accendiamo la luce, il wi-fi, quei servizi impalpabili che sembrano manifestarsi come spettri, uscendo dai muri. Ai cavi telegrafici si sono sostituiti quelli telefonici; a questi, sui fondali marini, si è aggiunta la fibra ottica. Il 97% del flusso di informazioni su scala globale scorre sul fondo dell’oceano, dove ogni giorno vengono processate 15 milioni di transazioni finanziarie, spostando decine di miliardi di miliardi di dollari. Centinaia di cavi transoceanici si irradiano sul pianeta dando vita alla internet backbone, la sua spina dorsale.
Una metafora che viene ripetuta da secoli. Come ci ricorda James Gleick nel suo L’informazione, da subito i sistemi telegrafici furono paragonati a quelli biologici: «I cavi come le fibre nervose, la nazione (o la Terra intera) come il corpo umano. […] Gli anatomisti che esaminavano le fibre nervose si chiedevano se fossero isolate con una versione organica della guttaperca». Al cervello invece Walt Whitman preferì il cuore, in una delle sue chiose a Foglie d’erba, quando nel 1860 cantò il primo cavo transatlantico: «Quali sussurri sono questi, o terre, che vi corrono innanzi e corrono sotto i mari? Comunicano forse le nazioni universe? Non ci sarà che un cuore solo per la Terra?».
Per quasi due secoli le nazioni universe sono state soltanto una manciata tra le centinaia. Così com’era successo per la rivoluzione telegrafica infatti, i primi canali da rinforzare sono stati quelli tra Occidente e Occidente. All’inizio del ventunesimo secolo, scrive Keller Easterling, «l’Africa orientale, una delle aree più popolose al mondo, non aveva un collegamento sottomarino in fibra ottica e aveva accesso solamente all’1 per cento della capacità di banda larga mondiale». In Kenya, fino al 2009, il costo di un megabit al secondo arrivava a quasi quaranta volte la media globale. Com’è stato possibile? «L’avvento del satellite negli anni Sessanta e Settanta coincise con l’emergere di molti paesi in via di sviluppo e venne visto come un modo per scavalcare i monopoli infrastrutturali e le gerarchie dei paesi industrializzati con una rete aerea. Eppure, alcune di queste proiezioni futuristiche della coesistenza di un mondo completamente modernizzato con un paesaggio pastorale incontaminato naufragarono nel cosiddetto ultimo miglio, lì dove le reti fisse come quella elettrica avrebbero dovuto fornire il complemento necessario al segnale satellitare. Il dispositivo ricevente andava alimentato, e in mancanza di reti ausiliarie adeguate fu necessario creare delle enclave – zone commerciali o industriali chiuse capaci di attrarre gli investimenti stranieri – cui portare in un’unica soluzione la rete dei trasporti, quella elettrica e la banda larga».
Nell’immaginario collettivo la scenografia della storia coloniale è un pasticcio di navi, porti e carovane. Nel Novecento le modalità d’invasione hanno però attraversato delle trasformazioni irreversibili, fino a trasparire nelle onde radio scambiate dalle macchine catasterizzate, luci pulsanti che si confondono tra quelle stellari.
Negli stessi anni Sessanta e Settanta il Summer Institute of Linguistics (Sil), una delle principali organizzazioni missionarie evangeliche americane, atterra nella foresta amazzonica. Nel dopoguerra, soprattutto negli anni Settanta, il Sil si è occupato di insediare il famigerato last mile, spesso grazie all’interesse dei suoi sponsor, la U.S. Central Intelligence Agency (Cia) e l’United States Agency for International Development (Usaid). La missione del Sil, ricordano Ursula Biemann e Paulo Tavares nel progetto Forest Law, è stata quella di «pacificare e civilizzare» le popolazioni autoctone a diverse latitudini, dal Guatemala al Vietnam.
Altri direbbero, più tecnici: contenimento del dissenso e integrazione nella struttura capitalista. Per realizzare questi obiettivi la strategia si deve declinare nello spazio, inospitale e alieno. Nascono allora, nelle anse della foresta amazzonica, città di frontiera che si chiamano direttamente Shell, come l’industria che le rende possibili. Da Shell, in qualche decennio, l’eterogenesi dei fini di missionari, esercito e industria petrolifera ha lavorato fino all’ultimo miglio ricorrendo a una forma di violenza aumentata, capace di unire tutto il sapere della tradizione colonialista allo sfruttamento di nuove tecnologie. Il lavoro indivisibile di satelliti e segnali radio ha inquadrato l’Uno della foresta, indivisibile fin dai recessi del tempo profondo, per procedere alla sua frammentazione, quantificazione, rielaborazione.
L’alleanza tra evangelizzazione e industria fossile s’innesta insomma nel terreno occupato per secoli dalla macchina della piantagione, un processo che nel tempo si è articolato secondo linee specifiche e non generalizzabili; qualcosa che non è cambiato nel tempo è però l’applicazione cieca di conoscenze e strumenti assemblati a Occidente. Dall’Europa nasce la visione euclidea del pianeta, una Terra divisa a fette e quindi razionalizzabile (secondo la ragione-calcolo e la razione-porzione), una Terra misurabile e sfruttabile. Tra le tante alternative al nome di Antropocene, ormai è noto, c’è anche quella di Plantationocene: l’epoca geologica innescata dalla forza imperialista che mescola uomini e continenti, virus e denaro, animali alloctoni e regimi dittatoriali.
L’antitesi radicale della visione estrattivista è quella che agli albori dell’antropologia è stata definita «primitiva», un sistema di relazioni sociali e politiche che rifiuta un’idea di tempo cartesiana e riduzionista, appunto, misurabile; una simbiosi con la biosfera che si affida all’iterazione dei cicli naturali. Tra le mani dell’uomo bianco, sono solo parole: non è certo il mondo che mi ha cresciuto, e che circondato di libri mi ha protetto, per congiunture e genealogie, dalla vita dei Vargas. Ecco una testimonianza raccolta nella Corte Interamericana dei Diritti Umani, l’8 luglio 2011, nella cornice di una causa intentata dalla popolazione indigena Kichwa di Sarayaku nei confronti dello Stato dell’Ecuador: «La terra del signor César Vargas si trova in un posto chiamato Pingullu. Lui viveva lì con i suoi alberi. Quando hanno abbattuto [le persone di CGC, una compagnia gas-petrolifera argentina] quel grande lispungo, e con esso le fibre che usava per curare, ha provato una profonda tristezza, e sua moglie è morta. Poi è morto anche lui. Avevano due figli maschi, che sono morti anche loro, uno dopo l’altro. Ora restano solo due figlie».
Nelle città del Progresso, gli alberi finiscono per essere un disturbo ornamentale; nelle società precoloniali sono manifestazioni del genius loci, antenati, esseri coscienti, arbitri del destino di un popolo. A qualche ora di volo dalla famiglia Vargas, nella stessa foresta amazzonica in via di atomizzazione, provano a sopravvivere gli Yanomami. Davi Kopenawa, sciamano portavoce del popolo Yanomami del Brasile, scrivendo La caduta del cielo ha permesso un dialogo fino ad allora inedito tra la sua cultura (la lingua yanomami, la vita spirituale, il sistema valoriale) e quella dell’uomo bianco; nonostante una storia di massacri, mutilazioni, epidemie: «Non vogliamo strappare i minerali dalla terra, né che i loro fumi d’epidemia ridiscendano su di noi! Vogliamo che la foresta resti silenziosa e il cielo rimanga chiaro così da poter distinguere le stelle quando giunge la notte. […] Se il nostro soffio di vita si interrompe, la foresta diventerà vuota e silenziosa. I nostri spettri a quel punto raggiungeranno tutti quelli che già vivono numerosi sul dorso del cielo. Allora, malato come noi a causa dei fumi dei Bianchi, il cielo comincerà a gemere e inizierà a rompersi».
Il cielo soffre, il cielo cade. Il progresso ha trasformato la Terra fino a lassù, dove i satelliti si illuminano in fila imitando le stelle. Un giorno, cadranno pure loro.