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Capitolo 4
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Il Grande Inganno
È stato un fallimento dell’immaginazione
Capitolo 4: Il Grande Inganno

È stato un fallimento dell’immaginazione

David Quammen ci ricorda che la potenza perturbante del virus è così grande perché ci costringe a pensare che l’uomo è davvero un animale tra gli animali, e che come loro si può estinguere

Conversazione con David Quammen di Francesco Guglieri

Durante i primi mesi del 2020, nei giorni della pandemia causata dal Covid-19, alcuni commentatori definirono il virus, e le sue conseguenze, come il classico «cigno nero»: un evento raro e imprevedibile secondo l’espressione resa celebre da Nassim Nicholas Taleb. Ma molti studiosi, a cominciare da Taleb stesso, rifiutarono questo accostamento. Per la comunità scientifica l’idea di una pandemia globale dovuta a un virus di origine animale non era un’eventualità, era una certezza. Come scriveva David Quammen in Spillover (Adelphi) già nel 2012, la domanda su una pandemia globale non era se sarebbe avvenuta, ma quando. «Sì, è vero. Sapevamo che sarebbe accaduto, mi dice Quammen quando lo incontro. C’erano le previsioni degli scienziati, c’era un’intera comunità scientifica che da anni, se non decenni, andava dicendo che sarebbe arrivata una nuova pandemia, che sarebbe stata causata da un virus, che quasi sicuramente sarebbe stato un nuovo virus proveniente da un animale selvatico. E che sarebbe potuto benissimo essere un virus dell’influenza o un coronavirus. Gli scienziati lo dicevano nelle loro pubblicazioni, io lo dicevo nel mio Spillover raccogliendo i loro pareri, e altri ancora stavano diffondendo questo avvertimento. È impossibile credere che i leader mondiali e i funzionari della sanità pubblica non fossero a conoscenza di questi avvertimenti. Dovevano essere consapevoli. Anche quando al comando c’era un leader ignorante come Donald Trump, era comunque circondato da persone che gli dicevano che tutto ciò sarebbe potuto succedere».

Com’è potuto accadere, allora, che la pandemia ci travolgesse come un’onda inarrestabile, che ci apparisse come un alieno atterrato sulla Terra dallo spazio profondo, quando invece, come previsto, arrivava proprio da quelle »isole» di vita selvaggia che stavamo distruggendo? Com’è possibile che non l’abbiamo visto arrivare? «Me l’ha spiegato un ottimo funzionario della sanità pubblica di nome Ali Khan, ex del CDC [Centers for Disease Control and Prevention, Ndr] americano e ora preside della School of Public Health dell’Università del Nebraska: mi disse che non è stato un fallimento dell’informazione, non è stato un fallimento della scienza. È stato un fallimento dell’immaginazione. Quello che intendeva era che le persone che hanno ricevuto queste informazioni, che hanno ascoltato questi avvertimenti, sono state incapaci di immaginare che questo evento sarebbe accaduto durante il loro mandato, sotto la loro responsabilità. Gli è stato detto che per prevenire che un focolaio di un nuovo virus generasse una pandemia, per rispondere rapidamente, ci sarebbe voluto del denaro, molto denaro, decine di miliardi di dollari per creare reti internazionali e strutture sanitarie pubbliche. Ora, se dici a un politico che serviranno decine di miliardi di dollari per prevenire un evento è probabile che chieda: Be’, quando accadrà questo evento? Accadrà da qui alle prossime elezioni? A quel punto gli scienziati rispondono che non lo sanno quando accadrà, sanno solo che accadrà. Potrebbe succedere tra un anno. Potrebbe succedere tra due anni e potrebbe non succedere tra cinque anni. Il politico pensa: Ho le elezioni tra tre anni. Non spenderò decine di miliardi di dollari per proteggermi da qualcosa che non accadrà da qui alle mie prossime elezioni. Il punto, che i decisori non capiscono, che non sono riusciti a immaginare, è che questo qualcosa può accadere tre anni prima delle elezioni o cinque anni dopo le elezioni. Ma il danno, anche solo economico, che provocherà, sarà, come in effetti è stato, migliaia di volte maggiore di quanto ti sarebbe costato prevenirlo. Questo è un fallimento dell’immaginazione».

Pare che Samuel Taylor Coleridge, il grande poeta del Romanticismo inglese, avesse l’abitudine di seguire le lezioni di chimica della Royal Institution. Quando qualcuno gli domandò perché si sottoponesse a quel tormento, Coleridge rispose: «Per arricchire la mia riserva di metafore». Una volta, negli anni Settanta, Italo Calvino fu bacchettato da Margherita Hack perché, scrivendo di buchi neri, aveva sbagliato un qualche dettaglio scientifico, si era «fatto incantare dalle immagini». La risposta un po’ piccata di Calvino fu che per uno scrittore che, come lui, «va continuamente in caccia di immagini al limite del pensabile, questo è un duro colpo: come incontrare un cartello di “caccia vietata” in un bosco (la scienza) che per lui è una riserva di pregiata selvaggina». Ecco. Quammen ha questa capacità straordinaria: nei suoi libri, o quando ci parli di persona, sembra non allontanarsi mai di un millimetro dal piano del racconto fattuale degli eventi. La cosa che gli interessa di più è far arrivare al lettore le informazioni, il contesto, l’ordine degli eventi per ricostruire le grandiose storie di scienza al centro dei suoi libri. Ma facendo questo, ecco il suo talento, è in grado di innescare una reazione a catena di pensieri, immagini, metafore: i suoi libri sono così diventati non solo delle vere e proprie mappe per orientarsi in questa nuova era oscura, ma anche una stupefacente «riserva di pregiata selvaggina» per artisti, scrittori, filosofi e visionari.

Per questo non mi sorprende che una delle prime cose di cui iniziamo a parlare sia proprio l’immaginazione. «Alcune cose sono state sorprendenti, altre no» prosegue Quammen. «Il fatto che si tratti di un virus molto pericoloso, quasi sicuramente proveniente da un animale selvatico. È un virus a RNA. È un coronavirus. Tutto ciò non mi ha sorpreso: è quello che ci dicevano gli avvertimenti. Ciò che è sorprendente, ciò che mi ha sorpreso è quanto fossimo impreparati. Mi ha stupito quanto gravemente sia stata colpita l’Italia a marzo e aprile del 2020, in particolare la Lombardia. È ancora un po’ misterioso per me e per altri perché l’Italia sia stata colpita così duramente all’inizio. Ne parlo nel mio nuovo libro che sto scrivendo, racconto alcune delle ipotesi che gli scienziati stanno facendo. Poi sono rimasto sorpreso da quanto fossimo impreparati sul fronte dei test per rilevare il virus. Non abbiamo testato le persone asintomatiche. Quando abbiamo avuto kit di test che alla fine hanno funzionato, ci siamo concentrati sulle persone che mostravano sintomi per confermare che avevano il Covid. Ma questo ci ha lasciato completamente ciechi sugli asintomatici, permettendo la diffusione silenziosa del virus»: di nuovo, nelle parole di Quammen, torna il tema della visibilità, di ciò che riusciamo a vedere e di ciò che resta celato. «Il virus si è rivelato molto, molto adattivo. Nuove varianti. Variante Alfa. Variante Delta. variante Omicron. E ora Xe e Xj, varianti di Omicron. Ognuna di queste varianti è stata una sorpresa: ma che il virus mutasse non è affatto una sorpresa». Immaginazione è anche capacità di proiettarsi nel futuro, gli dico. «Già. Il virus è ancora con noi. È ancora in aumento in molti Paesi. Non andrà via, non a breve. Continuerà a sorprenderci cambiando, adattandosi, evolvendosi per anni. Quattro anni? No, probabilmente per quattro decenni. Direi che tra 40 anni i bambini saranno vaccinati contro questo virus e altri coronavirus, probabilmente in un vaccino generale che copra tutti i coronavirus. Ma questo virus non sarà scomparso in 40 anni. Circolerà ancora. Farà ammalare le persone e probabilmente ucciderà ancora le persone tra 40 anni. Non così tanto come adesso, ma sarà ancora con noi, credo».

La paura del virus è così potente e pervasiva perché a livello simbolico mette in scena l’apparizione fantasmatica e minacciosa del suo doppio: ribalta e ripropone, in una versione angosciante, da incubo appunto, il sogno della globalizzazione, quello della trasformazione del mondo in un’unica, grande, città globale. La «fine del mondo» che l’angoscia quasi apocalittica della pandemia mette in circolo, quindi, è la fine dell’idea di mondo, del mondo naturale contrapposto a un globo del tutto antropizzato. Più l’uomo si pensava assoluto signore e padrone di una terra «totalmente illuminata», senza più rischi o zone di alterità, più questa totalità si rovescia nel fantasma perturbante della pandemia. Non è un caso che l’altro ambito dove è diffuso il termine «virus» sia quello delle reti informatiche e di internet in particolare. La comunicazione, e quella digitale soprattutto, aumenta la prossimità, e quindi la possibilità di contagio. La pandemia ha reso visibile l’infrastruttura del mondo. La rete di reti di scambi e di comunicazioni, di persone e merci, di linguaggi e ideologie, di immagini e paure, di storie e genomi.

«Tutti i miei libri, a ben vedere, hanno a che fare con i confini, l’idea di confine, la possibilità o l’inevitabilità che confini, frontiere e barriere vengano violati. I confini saranno trascesi, le frontiere verranno superate, diventeranno porose. Il mio primo libro, The Song of the Dodo, uscito 26 anni fa, parlava dell’evoluzione nelle isole, di ciò che le isole possono insegnarci sull’evoluzione e l’estinzione. Sa perché le isole sono importanti? Perché sono delimitate. Sono tutto confine. Sono appezzamenti di terra relativamente piccoli con confini assoluti molto, molto forti. Sono, ad esempio, un pezzo di foresta pluviale circondato dall’oceano. E allora quel pezzo di foresta pluviale è abitato da creature che non possono attraversare gli oceani. Sia mammiferi che rettili e persino uccelli. Molti uccelli sono riluttanti a volare anche attraverso 20 miglia di oceano aperto. Quindi l’importanza della frammentazione dei paesaggi sulla terraferma è stata riconosciuta come estremamente importante perché le specie si estinguono anche sulle isole. E mentre suddividiamo la terraferma in isole circondate dalla civiltà umana, anche le specie si estingueranno in quelle zone. Quello è stato il mio primo libro importante su argomenti scientifici. Al centro dei miei libri credo ci sia l’assalto, la critica, a un presunto confine, un confine molto diffuso nel pensiero umano. E cioè il confine tra l’uomo e la natura, tra l’umano e il mondo naturale. Le persone hanno la tendenza a pensare che noi umani siamo separati dalla natura. Che siamo al di sopra della natura. Darwin però ci ha insegnato che no, non lo siamo per niente. Siamo parte della natura. Siamo animali. E che i confini tra noi e gli altri animali sono relativamente minori. Ci sono differenze quantitative, non qualitative. Abbiamo un antenato comune con gli scimpanzé da cui ci siamo lentamente evoluti circa cinque milioni di anni fa. Quindi questi confini non sono assoluti. Questo è il grande insegnamento di Charles Darwin. E immagino attraversi la maggior parte dei miei libri».

La potenza perturbante del virus è così grande perché va a toccare le zone più ancestrali del cervello umano mettendo a repentaglio non solo la sopravvivenza fisica dell’individuo, ma minacciando la sopravvivenza dell’essere umano come specie: perché il virus costringe a ricordare la più profonda e sinistra delle idee darwiniane. E cioè che l’uomo è davvero un animale tra gli animali, privo di qualsiasi eccezionalità. E con gli altri animali condivide quindi la possibilità di estinguersi. «Esatto, sì. Oggi si parla molto di microbioma ad esempio. Tutti i nostri corpi contengono altri organismi, microrganismi, batteri, virus, archei, piccoli organismi unicellulari, eucarioti, e quando sono questi a causare problemi la chiamiamo infezione, la chiamiamo malattia, prendiamo un antibiotico e cerchiamo di sbarazzarcene. Ma abbiamo probabilmente decine di migliaia di tipi di organismi che vivono in noi che sono innocui o addirittura benefici per noi. E aiutano a bilanciare i processi. Vivono nel nostro stomaco, vivono nel nostro intestino, sulla nostra pelle, sulle nostre mucose, fanno parte della nostra vita. Non solo: ci sono intere sezioni del nostro stesso DNA, nel nostro stesso genoma, che ci sono arrivate da altre creature, non per discesa verticale, durante lunghi processi evolutivi, ma, per così dire, orizzontalmente, lateralmente: da virus, ad esempio, che infettando gli esseri umani entrano a far parte del nostro genoma. I retrovirus endogeni, ad esempio, l’8% del genoma umano è costituito da DNA virale che è arrivato attraverso questi retrovirus endogeni. Virus che vanno all’indietro e s’inseriscono nel DNA delle cellule. E alcuni di questi si sono inseriti nel DNA delle nostre cellule riproduttive, uova e sperma, e questo li ha resi parte del lignaggio ereditario umano. Quindi siamo compositi. E così, come dico nel libro L’albero intricato (Adelphi), ci sono tre categorie che la gente pensa come assolute e che in realtà assolute non lo sono per niente. Un individuo come creatura unitaria e discreta. No, noi siamo una comunità e ci siamo fusi con altre creature. L’idea di una specie come categoria assoluta e discreta. No: abbiamo scoperto che esiste del materiale genetico che passa lateralmente da una specie all’altra attraverso il processo definito trasferimento genico orizzontale. E infine l’idea che la storia della vita assomigli a un albero ramificato. Un albero che ha i rami sempre divergenti. Ora sappiamo che no, questo albero intricato ha in realtà rami che si uniscono e s’intrecciano anche orizzontalmente, come una rete. È un albero intricato».

Una totalità minacciosa e incombente. Qualcosa che affascina e terrorizza allo stesso tempo. Una mescolanza di attrazione e repulsione per ciò che ci trascende. La dismisura di ciò che non è immediatamente comprensibile al cervello umano e alle sue categorie epistemologiche. Un’esperienza che è un vero e proprio assalto all’integrità del soggetto. Sono caratteristiche che l’interpretazione della pandemia condivide con il sublime.

Immaginazione. Visibilità. La pandemia ci ha costretto a ripensare tutta una serie di concetti con cui fino a quel momento avevamo pensato, visto e immaginato il mondo. Il virus e il contagio sono invisibili, sono al contrario estremamente percepibili gli effetti (sulle persone, sulle città, sull’economia); la pandemia è un evento che coinvolge tutti avendo a che fare con il corpo, ma la maggior parte delle persone l’hanno vissuto in casa, impossibilitati a vedere quello che succedeva nella loro stessa città, paradossalmente più informati di ciò che accadeva dall’altra parte del mondo che dall’altra parte della strada. «Penso che ci siano tre grandi problemi che dobbiamo affrontare su questo pianeta. E noi siamo la causa ultima di tutti e tre questi grandi problemi. Tre problemi collegati l’uno all’altro, anche se questo non vuol dire che uno sia la causa di un altro. I tre grandi problemi sono la perdita della biodiversità e le estinzioni di massa; il cambiamento climatico; e le minacce di nuove pandemie globali. Quei tre sono i grandi problemi e sono collegati tra loro. Ma non si può dire che il cambiamento climatico sia la causa delle pandemie o che il cambiamento climatico sia la causa della perdita della diversità biologica. Interagiscono l’un l’altro in modi complessi. Ad esempio, il cambiamento climatico contribuisce alla perdita della diversità biologica modificando gli ecosistemi e rendendo difficile la sopravvivenza delle creature, poiché il clima del loro particolare ecosistema cambia. Il cambiamento climatico può avere effetti terribili sulla foresta amazzonica, una delle cinque grandi foreste del pianeta Terra, cambiando i cicli delle piogge che porta a una maggiore aridità nell’Amazzonia meridionale e parti di foresta pluviale iniziano a trasformarsi in savana e pascoli. E poi ci sono gli incendi sia naturali che umani, e poi c’è il disboscamento da parte degli umani. E questo influisce sulle precipitazioni perché il ciclo delle precipitazioni in Amazzonia dipende dalle dimensioni della foresta. Quindi il cambiamento climatico potrebbe portare la foresta amazzonica oltre un certo limite dopo il quale la fine della grande foresta sarebbe inevitabile. Questi problemi interagiscono, ma ognuno di questi problemi ha la stessa causa ultima: e questa causa ultima è la popolazione umana. La nostra impronta sul mondo».

Ma allora come rappresentare l’irrapresentabile, come evitare quella «grande cecità» di cui parla lo scrittore indiano Amitav Ghosh? Ne La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza), Ghosh affronta soprattutto il genere romanzo, ma considerazioni simili si possono tradurre per molta arte contemporanea. Com’è possibile, si chiede Ghosh, che la nostra vita (e la nostra morte, individuale e di specie) sia determinata da quest’enorme evento globale che è il cambiamento climatico (ma lo stesso può valere per la pandemia) e che allo stesso tempo non siamo in grado di rappresentarlo nella nostra arte, nei nostri romanzi? Dobbiamo disinnescare i meccanismi ideologici che ci fanno spostare la natura, il non umano, il globale sullo sfondo: il sublime può essere il modo per farlo, quel misto di terrore e fascinazione di fronte a cui ci mette la scienza e a cui l’arte dà forma. Per fare i conti, cioè, con quelli che il filosofo Timothy Morton definisce «iperoggetti»: fenomeni troppo vasti, diffusi, dotati di temporalità loro proprie per essere pensabili o rappresentabili, come i buchi neri, l’Antropocene, il cambiamento climatico. O, appunto, la pandemia.

«Penso ai tre grandi problemi di cui le parlavo prima, mi dice Quammen mentre ci stiamo per salutare, come a tre grandi fiumi. Tre grandi fiumi imponenti che scorrono paralleli, e scorrono tutti da un’unica montagna e sono tutti alimentati dallo scioglimento di un ghiacciaio su quella montagna. E poi scorrono da quella montagna in parallelo, e talvolta s’incrociano tra loro, ma hanno la stessa causa ultima, lo scioglimento del ghiacciaio e ciò che lo sta sciogliendo è la dimensione della popolazione umana. Siamo noi a causare questi tre problemi».

Conversazione con David Quammen di Francesco Guglieri

David Quammen è uno scrittore e divulgatore scientifico statunitense. Per quindici anni ha curato una rubrica intitolata «Natural Acts» per la rivista «Outside». I suoi articoli sono anche apparsi su «National Geographic», «Harper’s Bazaar», «Rolling Stone», «The New York Times Book Review» e altri periodici. La pandemia del coronavirus l’ha portato alla ribalta mondiale in quanto aveva predetto, già nel 2012, una nuova zoonosi pandemica con focolaio in Cina, poi restituita dal suo bestseller Spillover (trad. di Luigi Civalleri, Adelphi, Milano 2014).

Francesco Guglieri è scrittore, saggista ed editor. Ha tenuto corsi alle Università di Torino e Genova e alla Scuola Holden di Torino. È autore di Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati (Laterza, Roma-Bari 2020) e dell’introduzione al volume Biblioteca (Treccani Libri, Roma 2022). Collabora con il quotidiano «Domani» e altre riviste tra cui «doppiozero», «il Tascabile», «Rivista Studio». Tra le sue ultime pubblicazioni un saggio in Aria italiana. Enciclopedia minima per idee
e visioni oltre la pandemia (Mousse Publishing, Milano 2021) e la voce «Pandemia» per l’Enciclopedia Treccani dell’Arte Contemporanea.