Chiunque attribuisca alla specie umana una qualche responsabilità rispetto alle condizioni del pianeta, piomba nella trappola della responsabilità personale: «Che cosa faccio, io, per salvare la Terra?». Nella nostra cultura, la cultura democratica europea, sopravvissuta all’annientamento auspicato dai totalitarismi del Novecento grazie al provvidenziale intervento dell’esercito anglo-americano e per ciò stesso costantemente esposta al ritorno della minaccia antidemocratica, alla quale minaccia è necessario riferirsi non appena si evoca una qualunque responsabilità personale, i sistemi educativi si sono fatti carico di rendere evidente il peso di questa domanda. Siamo soliti fronteggiare l’interrogativo responsabilizzante attraverso l’attrezzatura offertaci dalla razionalità logico-cognitiva, della quale si serve chiunque scriva con l’obiettivo di argomentare (cioè io) e chiunque legga allo scopo di comprendere o confutare (cioè tu). Questa attrezzatura funziona bene perché copre l’intero territorio della scelta: attorno agli estremi azione-omissione, si sviluppa tutto ciò che possiamo decidere di fare o di non fare, quando cerchiamo di assumerci la responsabilità ecologista.
Questo territorio è molto frequentato e gode di ottima stampa. La preoccupazione per la sopravvivenza del pianeta ha travalicato i confini delle discipline accademiche (di solito presidiati coi fucili dai tutori dell’ordine universitario e difesi con i denti dai cani da guardia degli ordini professionali), tanto che è oggi impossibile osare un qualche dire senza riferirsi alla sostenibilità, una parola divenuta inconfutabile, perciò sul punto di risultare inutile. Non fa eccezione il mondo dell’arte, le cui ritualità si ancorano sempre più volentieri alle istanze dell’ambientalismo. Perciò, ci sarebbe poco d’interessante da aggiungere sulla questione, sempre che la questione risultasse correttamente inquadrata. Se invece si sospettasse che la cornice è difettosa, allora un discorso potrebbe venire suggerito. Quando decidiamo, si diceva, siamo costretti a oscillare tra l’azione e il rifiuto dell’azione. Questo pendolarismo progettuale proviene dai limiti della nostra razionalità, che risultano indagati con la cura più estrema da psicologi ed economisti, due tipologie di professionisti che tendono a non dare eccessivo credito agli artisti (a condizione che non ci sia da far presenza a un vernissage). Così, mentre ci disponiamo alla scelta, ci scopriamo costretti a decidere in mancanza di numerose informazioni chiave. Decidiamo di continuo, di continuo assumendo che il nostro intervento, o la nostra assenza, sia la cosa più adatta al contesto nel quale ci troviamo a decidere. Eccoci al punto.
Quando stiamo per assumere una decisione, prefiguriamo razionalmente, per quanto ci è possibile, l’intero ventaglio degli impatti che il nostro fare (od omettere di fare) è destinato a generare su noi stessi, sul nostro intorno, sui nostri prossimi, persino sull’intero pianeta, addirittura sull’atmosfera terrestre e, in ultima istanza, sull’universo tutto. La scienza si è molto raffinata nella previsione di questi impatti, così oggi è più facile per tutti effettuare valutazioni fondate sulle conseguenze dirette e indirette delle scelte che noi facciamo con lucidità e responsabilità. Ma che ne è delle conseguenze inintenzionali?
Quando ragiono in merito alla mia personale responsabilità rispetto al pianeta, sono interessato soprattutto agli esiti indesiderati della mia azione; m’interessa il male cui sono destinato a dare forma nel momento esatto in cui mi sforzo d’introdurre il bene. Qualunque discorso pubblico relativo al pianeta, alla sua salvezza, ai nostri comportamenti sostenibili, dovrebbe venire preceduto da una visione condivisa del film «Hiroshima mon amour», sceneggiato da Marguerite Duras e diretto da Alain Resnais. Perché la data più importante nella storia dell’umanità, come ci ha fatto notare Arthur Koestler, è il 6 agosto 1945. «La ragione è semplice: dall’alba della coscienza sino al 6 agosto 1945, l’uomo ha dovuto convivere con la prospettiva della propria morte come individuo; dal giorno in cui la bomba atomica ha oscurato il sole di Hiroshima, l’intera umanità ha iniziato a convivere con la prospettiva della propria estinzione come specie».
Difficile parlare della temperature del pianeta senza passare da qui. Difficile passare da qui senza l’aiuto di Duras-Resnais, perché «tu non hai visto niente, a Hiroshima». A Hiroshima non abbiamo potuto vedere niente, il bagliore della bomba ha accecato la nostra capacità di riconoscere il potere delle conseguenze inintenzionali delle nostre scelte.
Qualche anno dopo Hiroshima, Elizabeth Anscombe ha filtrato quel bagliore, ha potuto vedere e ha cercato di chiederci di fare più attenzione. Sua figlia lo ricorda così: «Fu nel 1956, quando l’Università di Oxford decise di conferire un diploma honoris causa all’ex Presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Proprio l’uomo che si vantava di aver ordinato il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki […] Mia madre poté opporsi a questo riconoscimento. La sua non fu una mera protesta in quanto faceva parte del comitato che doveva legittimare il riconoscimento: si trovava quindi nella medesima posizione di un membro del Parlamento che può opporsi all’approvazione di una nuova legge […] Il discorso di mia madre fu del tutto inutile».
Stabilire se Harry Truman è un eroe oppure un criminale, se merita una laurea ad honorem o un processo civile, è questione altamente complessa. Per fronteggiare tale complessità è necessario liberarsi della cornice cui facciamo implicitamente riferimento, quando ci poniamo la domanda: «Che cosa faccio, io, per salvare la Terra?». Le risposte che si limiteranno a indicare le buone intenzioni risultano oramai irricevibili. È necessario cambiare la cornice, anziché attardarci sul quadro. Se intendiamo confrontarci con una cosa così più grande di ciascuno di noi come «il pianeta», dobbiamo essere pronti ad assumere il principio dell’universale inintenzionalità del male. Il male accade perlopiù inintenzionalmente, dobbiamo deciderci a riconoscerlo. Questo non esclude che il male sia frequentemente generato di proposito, ma abbiamo poco tempo e non possiamo attardarci a contrastare simili deviazioni. La priorità sulla quale è necessario concentrare gli sforzi è l’intreccio profondo di male e bene che ciascuna decisione genera, senza eccezioni. Un simile intreccio è difficile da estricare, ma questo non lo rende meno decisivo.
Forse, la familiarità che certi artisti alimentano con le conseguenze non intenzionali delle proprie scelte renderà l’arte un territorio preferibile rispetto all’economia, quando si tratterà di stabilire a che cosa rinunciare per rendere la vita sul pianeta più equilibrata e godibile. Tieni a mente che tu non hai visto niente, a Hiroshima, e pure qualcosa cominci a intuire.