Atto I: l’Italia di Guido Carli, o le due anime del Faust del Belpaese
Negli ultimi anni della sua vita Guido Carli ritornò spesso sull’immagine delle «due anime di Faust», riprendendo il capolavoro di Goethe su cui aveva esercitato il proprio tedesco nel periodo che aveva trascorso da studente a Monaco di Baviera, nel 1936. Carli era convinto che anche nell’economia italiana, come nel petto del dottor Faust, albergassero due anime in conflitto e che il loro contrasto si riproponesse sempre, acutizzandone gli effetti divisivi. Il sistema economico, diceva Carli nel suo denso libro di memorie (Cinquant’anni di economia italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma-Bari 1993), era lacerato fra due tendenze opposte: «L’una riconosce nello Stato, nella programmazione economica da parte dello Stato, nella gestione di imprese da parte della mano pubblica, la soluzione del problema della produzione della ricchezza e della sua distribuzione secondo princìpi di equità. L’altra assume che compete ai pubblici poteri dettare regole generali che orientino l’iniziativa dei singoli al soddisfacimento dei bisogni della collettività e degli individui».
La lotta fra queste due anime, continuava Carli, è sempre stata «impari», perché da un lato c’è una minoranza (anzi, rimarcava, «una piccola minoranza») a difesa delle prerogative del mercato, mobilitata «contro gli spiriti animali di tutta la classe dirigente italiana», pronta a ripiegare «nell’alveo protettivo di una società corporativa». E tuttavia il ripiegamento non era avvenuto perché, in seguito a «uno di quei casi storici in cui s’intrecciano fortuna, causalità e geniale intuizione», essa era stata sospinta, almeno durante l’esistenza di Carli, verso «l’adesione alle istituzioni monetarie internazionali», imboccando una strada capace di condizionare il suo futuro e di gettare le basi per la prosperità del paese. Nella fase finale della sua riflessione autobiografica, Carli faceva coincidere il senso della sua partecipazione alla vita pubblica del paese nel cammino che aveva compiuto per indirizzare l’Italia nella direzione in cui altrimenti non sarebbe andata spontaneamente. Perché se il paese avesse assecondato i suoi «spiriti animali» sarebbe finito da tutt’altra parte e avrebbe ripristinato un pesante involucro corporativo, nel suo nucleo avverso al mercato, che era stato eretto e perfezionato durante il regime fascista.
Il giudizio è molto pesante, nella propria sostanza: Carli non denunciava tanto un’attitudine che intrideva le fibre profonde della nazione, ma un modo d’essere connaturato ai ceti dirigenti, tacciando questi ultimi di una propensione innata che li portava a scivolare verso una deriva corporativa avversa alle ragioni dello sviluppo. Impressiona che una simile valutazione venisse espressa da un personaggio che, dentro le classi dirigenti, c’era nato per non distaccarsene mai, grazie a un cursus honorum prestigioso come pochi altri, lungo il quale aveva inanellato cariche su cariche fin dalla giovane età: presidente dell’Ufficio italiano cambi, ministro per il Commercio Estero, governatore della Banca d’Italia, presidente di Confindustria (l’unico a non essere uscito dai ranghi imprenditoriali), senatore democristiano e ministro del Tesoro. Da ultimo, grande negoziatore al tavolo degli accordi di Maastricht nel 1991.
Guido Carli. Una vita
Eppure Carli considerava e rappresentava sé stesso come l’appartenente a una minoranza civile, politica e intellettuale che aveva dispiegato la propria influenza nel far compiere all’Italia i passaggi davanti ai quali si era mostrata riluttante. Era la sua ricostruzione il frutto di un itinerario autobiografico concepito e razionalizzato a posteriori, allo scopo di restituire coerenza a una storia che forse così coerente non era stata? E quanto c’è nel suo racconto di ancora significativo per l’Italia di oggi, col suo attracco problematico all’Europa e l’incerta collocazione nel sistema internazionale? Non era detto che il percorso di Carli fosse tracciato dall’inizio, anche se la condizione della sua famiglia lo abilitava a essere da subito un componente dei ceti dirigenti.
Carli era nato nel 1914, quando suo padre Filippo era ancora nel pieno della sua attività giovanile di segretario della Camera di Commercio di Brescia e, in parallelo, di promotore delle idee corporative che un giorno suo figlio avrebbe combattuto. Filippo Carli si rese noto alle cronache come ideologo dell’ala economica dei nazionalisti italiani, di cui era l’uomo di punta. Era tutt’altro che liberista, anzi, era un vero e proprio avversario delle idee di Einaudi, che riteneva inadatte allo sviluppo dell’Italia industriale. Voleva che fra Stato e imprese (in specie le grandi imprese siderurgiche della sua Brescia) si siglasse un autentico patto leonino. Immaginava che i «cartelli» dominassero sopra il mercato, che fra la nazione, l’industria e il lavoro si stabilisse un’alleanza organica, indistruttibile. Queste idee, se subirono modificazioni, non furono alterate nel loro ceppo d’origine e Filippo Carli vide nel fascismo il loro agente realizzatore. Negli anni del regime fu premiato con una cattedra di sociologia, giacché come economista era un po’ troppo eterodosso per essere ammesso nella cerchia accademica. Suo figlio crebbe nella sua traccia ideale, tanto che compì gli studi in cui Filippo l’aveva istradato. Studiò economia, sì, ma secondo un’impronta corporativa (testimoniata del resto anche da quella propensione per il tedesco che è già stata citata). Purtroppo, Filippo venne a mancare quando Guido stava per giungere alla laurea. Immediatamente si pose il problema di un lavoro: la soluzione giunse grazie a un impiego all’Iri, elemento che non deve stupire nel contesto di questa storia. A favorire l’assunzione del giovane laureato, dirà in seguito un reticente Carli, sarà «un sacerdote originario della Val Trompia, in provincia di Brescia [di nuovo i legami “di ferro” di quella terra], amico della famiglia Montini che era legata alla [sua] da antica amicizia». C’è chi ha pensato che quel sacerdote potesse essere Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Fatto sta che, presentato a un altro giovane economista, il cattolico Sergio Paronetto, che era già una figura di spicco in via Veneto, dove l’Iri aveva sede, Carli mosse i primi passi lavorativi nell’ambiente dove si era realizzata la compenetrazione fra Stato e impresa. Lì avrebbe conosciuto oltre a Paronetto, che era l’estensore di un incunabulo della nuova economia secondo la dottrina cattolica come il Codice di Camaldoli, Donato Menichella, poi suo predecessore alla Banca d’Italia.
Questa lunga premessa serve a rammentare come Carli fosse ben introdotto nei circuiti decisionali e amministrativi dell’economia pubblica, che praticò ben prima del milieu liberale cui professò in seguito la sua appartenenza. Segno che le anime di Faust non erano ancora così ben distinte al tempo della sua giovinezza e al momento dell’ingresso nella professione economica. Il Carli d’impostazione liberale, quella che non doveva più abbandonare, nacque dopo il crollo del fascismo, quando mandò in soffitta per sempre le teorie del padre e dei suoi amici sostenitori del corporativismo. Il periodo di svolta è il 1943-44, allorché Carli iniziò a frequentare i circoli politico-intellettuali liberali. Maturò allora la svolta e, subito dopo, la scelta di campo a favore degli Stati Uniti e dei valori occidentali.
Quello del dopoguerra è un Carli che sceglie con sicurezza la via della partecipazione agli organi tecnici dove si fissa la collaborazione fra l’Italia e il sistema occidentale. Essa si definisce a partire dal viaggio negli Stati Uniti di Alcide De Gasperi, che delinea la svolta politica del Governo italiano, ormai schierato senza riserve nel campo Atlantico. Per Carli ciò ha una traduzione economica nella piena accettazione degli accordi monetari di Bretton Woods, che permettono all’Italia di inserirsi in un nuovo schema di internazionalizzazione, favorevole al potenziamento e alla modernizzazione dell’apparato industriale, una strategia che trova il proprio caposaldo nella crescita della Fiat di Vittorio Valletta sul modello americano.
Sono gli anni del grande successo di Carli, oltre che dell’ascesa dell’economia italiana. La sua carriera è rapida, dopo lo snodo fondamentale costituito dall’approdo al ministero del Commercio Estero, proprio quando si attiva la politica delle liberalizzazioni commerciali. Carli scorge giustamente in essa il cardine sul quale erigere le fondamenta dell’integrazione europea. Nella sua analisi ex post, la storia dello sviluppo italiano appare sempre inquadrata all’interno di una cornice di istituzioni economiche, monetarie, commerciali e bancarie, che ha lo scopo di determinare regole e ambiti dell’espansione produttiva dell’Italia. Sotto il profilo personale, questa storia culmina per Carli con la sostituzione di Menichella alla Banca d’Italia, che inaugura probabilmente la fase della sua massima influenza politica.
Carli arriva in via Nazionale relativamente giovane (quarantasei anni), con un forte consenso costruito pazientemente dalla fine della guerra in avanti. Il governatore uscente probabilmente non l’avrebbe scelto come successore, ma non ostacola la sua nomina. Carli può così beneficiare dall’aura di prestigio che circonfonde la figura del governatore, rafforzata anno dopo anno dalla lettura pubblica delle Considerazioni finali, un appuntamento che diventa un rito del potere. La stesura della Relazione annuale della Banca d’Italia è, ricorderà Carli, un appuntamento impegnativo, cui pone una cura estrema. A coadiuvarlo sono il più grande banchiere italiano del tempo, Raffaele Mattioli, il presidente della Banca Commerciale che non fa mai mancare le sue osservazioni acute e spregiudicate, e l’economista Federico Caffè, il più rigoroso degli economisti di sinistra, che non si stanca di rivedere le bozze delle Considerazioni finali.
Quindici anni in carica sono tanti per il governatore di una banca centrale, specie se il periodo coincide con la fine del cosiddetto «miracolo economico» (una definizione contestata alla radice da Mattioli). La breve stagione dello sviluppo italiano si consuma in un pugno d’anni per cedere il posto a un’epoca diversa, in cui le questioni economiche si complicano, la società italiana perde la sua omogeneità e si frantuma in nuclei conflittuali, la politica economica diventa incerta, spesso informata a una logica compromissoria.
La fine di una visione
Nelle sue memorie Carli si sofferma su quest’epoca per documentare, da una parte, come le tentazioni corporative tendano a riaffacciarsi e, dall’altra, per indicare come il modo per venirne a capo sia rappresentato dall’ormeggio dell’Italia a vincoli internazionali tali da disciplinare i suoi comportamenti economici devianti. Questo è per lui il percorso che porta a Maastricht, dopo anni punteggiati anche da elementi di delusione personale (è deludente l’esperienza alla guida di Confindustria, lo è ancor più la battaglia come ministro del Tesoro per contenere spesa e debito pubblico). Beninteso, Carli è perfettamente cosciente che i vincoli sottoscritti per la moneta unica europea sono ben altrimenti stringenti rispetto a quelli di Bretton Woods. E si rende conto, nel dialogo fitto col suo successore alla Banca d’Italia Paolo Baffi, che la creazione di un’area monetaria omogenea sotto l’egemonia tedesca comporta costi e rischi molto gravosi per l’Italia. Ma è persuaso che l’Italia non possa scrollarsi di dosso queste costrizioni senza rischiare di perdersi, lasciando andare l’economia verso il collasso. La sua certezza è stata rimessa in questione più e più volte negli ultimi vent’anni, dopo che l’euro è diventato realtà. Non di meno, la partita fra le differenti anime dell’economia italiana si ripresenta ciclicamente, con sempre nuovi interrogativi. Forse tali anime non sono così nettamente separate e contrapposte come le presentava Carli, richiamandosi al Faust goethiano, ma di sicuro innervano un confronto che non si è mai concluso una volta per tutte.
Atto II: Nuto Revelli, la campagna abbandonata e l’Italia che cresce
«Mi piaceva vivere lassù. L’aria era buona, l’acqua era buona. L’acqua era il nostro vino. Avevamo tutto ciò che insieme si chiama libertà. Era come avere le ali. Qui al pensionato mi sento un po’ come in prigione. La notte, quando sogno, sogno lassù. La mia casa, la mia prima casa, era una casa tutta nera, ma mi piaceva tanto. Lassù vola l’aquila.» Giovanna Giavelli
C’è tutto nelle parole di Nuto Revelli, nel suo ciclo dei vinti. Ci sarebbe poco da aggiungere e molto da leggere:
«Tutte le volte che arrivavo a Caudano mi riceveva nella sua cucina bassa, buia, nera, in quel suo disordine di cui era geloso. E mi offriva il solito bicchiere di caffè e zucchero. Infilava sempre sette cucchiaini di zucchero nel mio caffè, non uno di più, non uno di meno. Lo zucchero abbondante era anche un segno dell’ospitalità, dell’amicizia. Ma era soprattutto una rivincita nei confronti del suo passato.
Agosto 1981. Vincens ritorna a Caudano tutte le volte che gli riesce possibile. È lui che mi ha introdotto nell’ambiente della borgata. Questa sua testimonianza è la radiografia di una piccola comunità che si spegne inesorabilmente, giorno dopo giorno:
“Caudano è andata proprio giù. Ogni volta che ritorno nella mia borgata, prima di entrare in casa, devo tagliare le ortiche che ormai invadono tutto. Le case abbandonate, che fino a tre anni fa avevano ancora un tetto, ormai crollano una dopo l’altra.
Negli anni Cinquanta sono molti i giovani della valle che sono andati alla Fiat. Tre erano di Caudano. In quei tempi la Fiat era una cosa importante, era un’azienda grossa come lo Stato. La gente diceva: ‘La Fiat è una cosa sicura’. Poi gli anni Sessanta, gli anni della Michelin, e la seconda grande ondata di giovani che hanno abbandonato la valle.
Quando mi sono trasferito a Strevi, quindici anni fa, qui a Caudano vivevano ancora otto famiglie, una ventina di persone. Adesso ci sono ancora due famiglie, sette persone. Di questi sette abitanti tre superano gli ottant’anni: Blot, Pinèt, e Tansin. Poi c’è Ninin che ne ha settantotto. Martin ne ha sessantasette, sua moglie Anna cinquantacinque, ed il figlio Renzo ventisei. È molto raro che nelle nostre borgate ci sia ancora un giovane come Renzo. Lui avrebbe potuto entrare alla Michelin, ma non vuol saperne della fabbrica. Dice che non vuole vendere la sua libertà. È innamorato della montagna. Ah, sì sì, è da sposare. […]
Due anni fa la famiglia dei Giordana si è trasferita a Dronero. Erano sei di famiglia, e con la loro partenza la borgata si è svuotata all’improvviso. Via i Giordana, via la vita e via l’armonia che c’era ancora a Caudano. […]
Tra dieci anni qui non ci sarà più nessuno. A meno che tutte le fabbriche chiudano, che licenzino gli operai. Oppure che succeda una guerra. Le hanno mica abolite le guerre. Fin che si armano, fin che costruiscono carri armati e bombe atomiche, una guerra è sempre possibile. Ecco, se venisse qualche sconvolgimento questo sarebbe ancora un posto sicuro per nascondersi! […]
Nella nostra zona i contadini sono pochi, si contano sulla punta delle dita. Giovani che si dedichino professionalmente all’agricoltura non ne esistono più. Si può dire che quasi ogni famiglia ha un congiunto che lavora in Alba, alla Ferrero, alla Miroglio, alla Società San Paolo… Una ragazza che lavora alla Ferrero guadagna più di trecentomila lire, uno stipendio rispettabilissimo. La donna che ha un lavoro è libera, non deve più dipendere dal padre o dal marito, come avveniva nel passato. L’indipendenza economica è molto importante. Io vedo mia madre…, da quando ha la pensione si sente più libera, più indipendente.
Fino a venti anni fa molte ragazze andavano da servente. Poi è arrivata la fabbrica ad interrompere quella trafila quasi obbligata. Mia cugina è una delle prime che è andata a lavorare alla Ferrero, nel 1955, quando aveva diciotto anni. Oh, la sua era sembrata una scelta clamorosa. Poi è diventato normale che le ragazze andassero a lavorare in fabbrica. […]”». 1
Ci credevamo
Questa è la storia dell’Italia del dopoguerra, quella che vede le campagne svuotarsi, la vita contadina impoverirsi ancora di più e perdere di senso per la società civile. La terra diventa un fastidio, o un accessorio, qualcosa che deve produrre e tacere. Da questo svuotamento fisico ha inizio lo sfilacciamento attitudinale e culturale. Leggere Revelli, come Fenoglio, sembra un gesto arcaico, un esercizio antico, quasi retorico. Eppure, ci credevamo. Credevamo nella modernità. Lo facevano le classi povere, che conoscevano il benessere, così come quelle dirigenti, che si arricchivano e avevano un chiodo fisso: quello che si sottrae da una parte si aggiunge dall’altra. Se gettiamo cemento qui, pianteremo un albero là, e la tecnologia ci salverà. Se da una parte il denaro ha pulito le coscienze di alcuni, la spinta illuminista ha tenuto in vita pervicacemente l’idea che la scienza e la ricerca non avrebbero fallito e che il pianeta si sarebbe salvato da solo. Nessuno poteva metterlo in dubbio, come nessuno negli anni Settanta pensava di non trovare un lavoro o non andare in pensione. Ma quello sfilacciamento, oggi lo sappiamo, era troppo grande. La terra è un fastidio, è qualcosa che deve seguire il nostro ritmo, un ritmo che non è più terrestre. E allora forse non resterà che abitare altri pianeti perché qui di spazio per noi sembra esserne rimasto poco. Ci abbiamo creduto, genuinamente. Che non tornasse più la guerra, che ora batte alle nostre porte, che la scienza risolvesse il problema dell’inquinamento, che potessimo sparare nello spazio i rifiuti, e che la terra fosse un bene fungibile. Così non è stato e ora, che le bombe cadono, non possiamo neppure più rifugiarci la dove siamo nati.
Da L’anello forte. La donna: storie di vita contadina di Nuto Revelli, Einaudi, Torino 1985.